Colloquio tra Sergio Sozi e Antonella Cilento

Tu sei nota soprattutto come autrice di romanzi. Forma, questa, abusata anzi bistrattata negli anni Sessanta ma poi usata abbondantemente anche dagli stessi detrattori – alludo soprattutto alla Neoavanguardia di Eco, Vassalli, Fofi e il Gruppo 63. Ma ora siamo nel 2017. Che momento sta passando, il romanzo italiano, Antonella?

Un momento difficile. Forse un momento che non è mai passato, perché nella molteplicità di espressioni che la forma romanzo contempla oggi risultano vincenti quelle orizzontali e commerciali: i generi, nella sottospecie dei “generini”.

Il noir, sempre più ovvio, mal scritto ed elementare; la non fiction delinquenziale (camorra, ‘ndrangheta, malaffare), che allude alla realtà passandola per verità ma parafrasando il romanzesco; il memoir o l’autofiction, che fanno credere a molti scribacchini di poter eludere la forma romanzesca in virtù dell’esperienza vissuta.

Pian piano l’arte del romanzo smobilita a causa del para-narrativo, dello story-telling, della narrazione estesa che cancella la differenza fra la cronaca e la Verità con la maiuscola, quella cui alludeva Elsa Morante.

Considero veri romanzieri in Italia oggi pochissimi fra autori e autrici, nessuno dei quali occupa le classifiche o raddensa le presenze festivaliere, giornalistiche e tele-ciarliere.

Chi di noi prosegue con vocazione autentica è indistinguibile per il grande pubblico da nani e ballerine…

Si scrive troppo, si scrive male, molti miei presunti colleghi sono lettori inclassificabili.

E l’università e la critica, del tutto prone all’editoria o incapaci di seguire le uscite o, peggio, impegnate a travestire i propri esponenti da romanzieri e narratori, hanno rinunciato a leggere e a comporre un canone degli ultimi venti anni.

Molti colleghi più anziani prendono in considerazione fra i più giovani chi li omaggia o non contende loro alcun posto, il servilismo è ai primi posti delle classifiche, i premi, come al solito, falsati nei valori.

Insomma, si lavora al buio della contemporaneità, illuminati solo da rare fiammelle e speciali incontri.

Già, la crisi umana, civile e soprattutto culturale c’è. Un cambiamento di ambientazione generalizzato e palpabile, rispetto ai decenni precedenti. Vedi o proporresti soluzioni?

Una mutazione è in corso, di sicuro, ed è avvenuta con sistematico calcolo negli ultimi trent’anni: l’editoria mondiale candidamente pubblica titoli resi già famosi da scrittori grandi o noti (duplicati di Bambini nel tempo di McEwan, di Vita: istruzioni per l’uso di Perec, di alcuni romanzi di Henry James, per esempio) senza che alcuno apra bocca. Spesso trame rinfarinate dopo anni, casi anche celebri, fondati sulla convinzione che i lettori abbiano dimenticato (ed è vero, è capitato con Anna Banti: non solo il lettore comune ma anche i lettori editoriali non l’hanno quasi mai letta).

Da un lato i giovani editor delle case grandi e piccole in Italia, in particolare, ignorano del tutto il nostro Novecento, sono tecnici della pagina e furbetti del marketing, cresciuti nella stessa società manipolata da vecchi danarosi che invano abbiamo contestato; dall’altro è forse davvero finito il Romanticismo con le sue lunghe propaggini ed è iniziato un alto medioevo in cui tutti scribacchiano e nessuno legge, ognuno ha il suo Nostos e la sua epichetta da pubblicare, mille Omerini, miliardi di epigoni che negano o ignorano i maestri. Abitiamo un gigantesco palinsesto (anche televisivo) che ognuno può raschiare a piacimento, si sentono tutti autorizzati e abbastanza intelligenti da farlo. Quindi, il palinsesto diventa il fondo del barile.

L’unica soluzione che ho trovato e praticato nella mia vita, e che ogni giorno con insistenza perseguo, è insegnare a leggere e a scrivere: mentre le scuole di scrittura alla moda hanno ben altre intenzioni, il mio lavoro è sempre stato da 25 anni il contagio, l’epidemia della lettura.

Con severità assoluta solo grandi autori, spesso dimenticati. Se mostri il bello e il vero, chi ti ha seguito non potrà più aprire senza un certo moto di disgusto o un latente senso di colpa qualcosa di sfrontatamente commerciale. Si accorge delle differenze (ed è quello che allievi di ogni generazione mi ripetono: ora leggo diversamente) e non può più tornare indietro.

Il punto è che ne posso formare un paio di centinaio ogni anno, al massimo, la ricaduta è lenta. Non ho potuto evitare che qualche bravo allievo con vere capacità narrative si trasformasse in un rampantino dei rapporti editoriali (sul carattere non incidi) ma so che ho dato il massimo con studenti, insegnanti, professionisti, precari, pensionati, universitari e aspiranti scrittori, che molti hanno anche capito, per fortuna, che scrivere per pubblicare non era la loro direzione, ma leggere con più passione e curiosità sì. Se non puoi cambiare il mondo, cambia te stesso.

Trovo eticamente ed esteticamente brutto, antiartistico, disumano e alienante, l’attuale metodo di selezione del pubblicabile portato avanti dalle grandi case editrici, cioè quello diciamo binario: o strettamente clientelare, ossia fondato sulla semplice conoscenza personale degli autori; o del personaggio pubblico ricco e famoso, meglio se anche straniero, dunque sempre pubblicabile.

Entrambi i metodi poggiano su un solo indiscutibile principio fisso: l’incompetenza letteraria dei selezionatori.

D’altronde, mi chiedo, come potrebbe leggere un romanzo vero, originale e profondo, un semplice affarista, o tecnico editoriale, privo di conoscenze storico-letterarie, che, all’interno della redazione di un editore, selezioni libri per piazzarli sul mercato come fossero prosciutti, auto o telefonini?

Con quali strumenti critici ed interpretativi costui – che mai ha letto una riga di Gadda, Calvino o Morante ma sa tutto dell’informatica, del marketing e dell’economia di mercato – sceglierà i testi?

Mi rispondo: con gli strumenti pari a quelli di un pescivendolo degli anni Cinquanta. Solo che mentre quel pescivendolo voleva migliorare, crescere e imparare a leggere, il pescivendolo finanziario-informatico-editoriale di oggi è ottuso dunque si mette d’impegno a distruggere qualsiasi opera letteraria sia per lui – dunque anche per i lettori, noi – di difficile assimilazione. Noi siamo come lui, il pescivendolo del Duemila, ci immagina. Lui non legge, non ci conosce, non ci frequenta, insomma ci ignora completamente ma crede di sapere quali libri sceglieremo in libreria, dunque pensa di saperceli fornire – per di più togliendo dal mercato quelli che per sentito dire gli stanno scomodi o antipatici, o che reputa invendibili, visto che non li legge né li saprebbe leggere.

Non mi stupisco, quindi, che pressoché tutto il lavoro editoriale italiano sia basato sulla ricerca di personaggi scialbi già noti nel mondo delle comunicazioni i quali forniscano agli editori testi da non leggere, testi esclusivamente da vendere come sciocchi soprammobili. Calciatori, mezzibusti, soubrette, indossatrici, politici, industriali… tutti i noti altrove nel mondo dell’immagine hanno diritto di prelazione sull’editoria italiana. Tutti eccetto gli scrittori veri, i letterati che prima leggono poi scrivono – senza scopiazzare e consultando pure, in itinere, dizionario e grammatica.

Ecco, Antonella, non ti nasconderò la personale convinzione che questa situazione culturale complessiva del 2017 – materialismo lucrativo e consumistico incluso – sia scaturita dall’ultimo nostro grande evento collettivo: il Sessantotto (quello italiano devo precisare) o almeno ne sia una conseguenza, la peggiore fra le tante migliorative che sarebbero potute avverarsi nel Paese…

Certo, anche se direi che il peggio non è solo nella scelta consumistico-clientelare di pubblicare amici, parenti, politicanti, starlette, attori, attrici, personaggi tv e chef, ma nel metodo di scelta e nella catalogazione ormai omologata: anche se parli con persone di qualità nel nostro settore quando dicono “letterario” lo fanno con il tono di sordina che si riserva agli atti sconci o ai comportamenti socialmente inopportuni, con un chiaro disprezzo economico, con quel tanto di commiserazione che è destinato ai deficienti per natura e anche con quell’oscuro sentimento di vergogna che trascina i maschi meridionali a grattarsi l’apparato genitale. Letterario porta sfiga. E allora, ecco che i cassetti dell’editoria commerciale mettono le donne che scrivono d’amore nel “femminile”, i casi umani nel “sociale”, i casi disperati nel “letterario”.

E i giovani redattori che scelgono poi il letterario sono in realtà compulsivi spettatori di fiction di HBO, e fin qui niente di male, ma, incapaci di distinguere fra i linguaggi, credono di poterti vendere un best seller per adolescenti come letterario. Sono responsabili di questo, e qui sono d’accordo con te, i redattori e gli editoriali che oggi hanno circa sessant’anni, che hanno forse “fatto”, come si diceva una volta, il ’68 e il ’77 ma si sono poi messi le maglie cielline, berlusconiane, pseudo-sinistrorse (la sinistra svanì e non la videro mai più in Italia) e, forse le peggiori, rassegnatiste. I rassegnatisti sono lettori assai forti ma frustrati: nella critica hanno smesso di leggere (e non c’è più romanzo dopo Elsa Morante: forse, ma magari fare una piccola verifica…) e nell’editoria vendono maiale per pernici ormai da decenni, sono responsabili di esordi penosi che ci affliggono in classifica per qualche anno e poi, ringraziando il cielo, svaniscono o si consolidano nella loro deprimente bruttezza, come quei fondali di manifesto che vedi per strada su cui è impossibile distinguere quale strato è il più antico e quale è il nuovo. Di aggressivi e ipocriti rassegnatisti sono stata spesso vittima o spettatrice.

In ogni caso il danno è definitivo e recente: ora sono gli stessi rassegnatisti a fuggire, delusi, a lasciare il campo a rampanti trentenni che non sanno nemmeno bene cosa vogliono, cosa fare, quali sono i valori in campo (denaro a parte). Della mia generazione, poi, posso dire pochissimo: le sono sempre stata estranea, appartengo ad altre epoche e altre specie, capisco molto bene l’estraneità di Anna Maria Ortese al suo tempo, la vivo sulla pelle. Ho imparato a navigare per vivere ma nessun porto mi somiglia.