Scrittori, scrivani o romanzieri?

C’è chi lo considera un segno ineluttabile dei tempi e un’opportunità di democrazia creativa, chi una iattura e la causa dell’appiattimento letterario che sembra contraddistinguere l’epoca attuale: certo è che, negli ultimi anni, lo sviluppo dell’editoria digitale e degli strumenti tecnologici che vi ruotano intorno (non ultimi i portali di autopubblicazione) ha consentito a chiunque di trasformare il proprio “scritto nel cassetto” in un libro vero e proprio, stampato e persino, a volte, distribuito. Ciò, forse, a danno del lettore, il cui orientamento è seriamente messo a rischio dalla giungla selvaggia di migliaia di pubblicazioni anonime, e sicuramente a danno della selezione da parte dei grandi gruppi editoriali, che oltre a doversi confrontare con un momento economico a dir poco drammatico e con un Paese che legge sempre meno, non trovano più nello “scouting” valide ragioni d’investimento, subissati come sono da montagne di dattiloscritti in larga parte inevitabilmente mediocri. Una professione, quindi, quella dello scrittore, in molti casi storicamente vituperata in vita e celebrata postuma, in progressiva scomparsa, visto il proliferare di migliaia di hobbisti della penna e di un’offerta editoriale sterminata, inevitabilmente tendente al basso e allo “già scritto”. Così, ai pochi titoli che possono vantare un buon numero di copie vendute, seguendo le tendenze del mercato e le esigenze prettamente commerciali che il settore impone, si affianca uno sconfinato e spesso invisibile “underground editoriale”, composto da testi che nella migliore delle ipotesi vendono poche centinaia di copie, piazzate ad amici e conoscenti dell’autore. Il primo libro di tantissimi scrittori in erba, inoltre, è spesso un concentrato delle proprie esperienze personali, lo specchio di vicissitudini dirette, una sorta di autobiografia mascherata da racconto dove luoghi, vicende e personaggi non costituiscono niente di più della trasposizione di un comune vissuto che, di solito, non ha nulla di particolarmente interessante o nuovo da dire. Questi scritti si definiscono romanzi, e di conseguenza chi li scrive, etimologicamente analizzando, dovrebbe essere un “romanziere”. Eppure il termine “romanzo”, almeno originariamente inteso, dovrebbe rappresentare un “ampio scritto in prosa diretto a dilettare il lettore col racconto di avventure eroiche e d’invenzione”. Dove sono andati a finire, dunque, i romanzi? E i romanzieri? Coloro che non hanno esigenza di attingere alla propria esperienza diretta, di parlarsi addosso, di costruire monumenti di retorica e noiosa quanto vacua introspezione, di creare caricature di se stessi, per erigere un plot e un minimo impianto narrativo? Salgari che sfornava libri a ripetizione lambendo con la creatività ogni angolo del pianeta, a un ritmo così serrato e forzato da portarlo alla morte dopo aver lasciato all’umanità un repertorio immenso, vero patrimonio da custodire con gelosia; le profezie, in gran parte avveratesi, di Verne; la penna realistica di Verga e della sua Sicilia; e Dumas, Tolstoj, Hugo, Dostoevskij. Oggi si insegue la storia d’amore della porta accanto, la denuncia politica, il saggio di costume che cavalca l’onda benevola della presenza mediatica dell’autore, l’aggressione religiosa retta da improbabili strutture di accento storiografico e sorte di biografie inutili camuffate, per l’appunto, da romanzo, con un abito che in realtà non hanno e che, tranne poche eccezioni, forse non esiste più. In una nazione sempre pronta a sbandierare cultura e assai meno a professarla, la proposta narrativa si indirizza alla frivolezza, al “fast-reading”, rincorrendo un pubblico dai gusti in continua involuzione, anche in ambito discografico, cinematografico e televisivo, abulico verso molti esercizi di profondità e, di conseguenza, di qualità. Una qualità che da noi, da tanto, troppo tempo, non va più di moda, non fa più tendenza. In carenza di stile e abilità linguistica si ricerca quindi la storia, e mancando anche la storia stessa, o le idee strutturali, si devia sull’autobiografia mascherata, nonostante il vero punto di arrivo di un artigiano della penna rimanga quello del “romanziere”: la capacità di far fiutare al lettore squarci di avventura e di allontanamento dal quotidiano, di raccontare di tutto e di tutti senza mai apparire, né sul proscenio né tra i velluti di quinta. Perché la letteratura di svago, lo indica il passato, resta la massima espressione della letteratura stessa.

Alessandro Vizzino

Alessandro Vizzino (Latina – 1971) è scrittore ed editore. Ha pubblicato i romanzi: SIN (MJM Editore, 2011), La culla di Giuda (Edizioni DrawUp, 2012), TrinacrimeStoria di un pentito di mafia (Imprimatur Editore, 2014). Ha vinto numerosi premi letterari, sia come narratore sia in veste di poeta. Alcuni suoi racconti sono stati inseriti in diverse raccolte antologiche.