Io, laureato in Lettere, vi spiego perché la mia laurea è utile

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Qualche giorno fa il vicedirettore de Il Fatto quotidiano Stefano Feltri ha scritto sul suo blog un articolo intitolato “Il conto salato degli studi umanistici” in cui, citando una ricerca realizzata dal centro studi CEPS dove si calcolava il valore delle lauree, contestualizzandola al nostro paese, attribuiva un valore fortemente negativo alle lauree in Lettere e Storia a differenza di altre facoltà come Legge, Economia, Medicina…

Partendo da questo presupposto, Feltri ha sentenziato “fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere”.

Il giorno successivo, per rispondere alle migliaia di critiche ricevute tra i commenti, ha pubblicato un nuovo articolo “Università, studiate quello che vi pare, ma poi sono affari vostri” citando i dati di Almalaurea sullo stipendio medio dei laureati e i dati di disoccupazione dove i laureati in facoltà umanistiche sono il fanalino di coda. Anche in questo caso la sentenza è stata lapidaria: “Se poi volete comunque studiare filologia romanza o teatro, se ve lo potete permettere o se vi attrae un’esistenza da intellettuale bohemien, fate pure. Affari vostri. L’importante è che siate consapevoli del costo futuro che dovrete pagare”.

Da laureato in Lettere – con anche una specialistica in questa Facoltà, che orrore caro Feltri! – non posso che prendere le distanze dall’articolo e notare con sconforto quanto sia infarcito di luoghi comuni, chiacchiere da bar e generalizzazioni perfino imbarazzanti per il vicedirettore di un quotidiano nazionale. La frase “se vi attrae un’esistenza da intellettuale bohemien, fate pure” è una delle più banali che sia stata scritta negli ultimi anni sul tema delle lauree umanistiche. Purtroppo sull’argomento c’è molta ignoranza e si parla più per sentito dire che per reale conoscenza del mondo universitario.

Partiamo da un presupposto: non è vero che non c’è lavoro per i laureati nelle facoltà umanistiche, il lavoro c’è, purtroppo però i posti di lavoro disponibili sono inferiori al numero di laureati in Lettere, Storia, Filosofia…

Molto spesso queste facoltà sono scelte da studenti che non hanno reali interessi verso le materie insegnate ma le scelgono solo perché desiderosi di prendere una laurea preferendo così iscriversi a una facoltà ritenute più facili come Storia o Filosofia piuttosto che intraprendere un percorso in corsi più impegnativi. Si crea così un cortocircuito con migliaia di studenti laureati ogni anno nelle facoltà umanistiche che non trovano lavoro, molti dei quali perché non hanno capacità e competenze adeguate. Così facendo rischiano pure di prendere il posto di chi invece ha una reale attitudine verso ciò che ha studiato.

Se i posti di lavoro disponibili per i laureati in Lettere sono poniamo 100 e i laureati 180, è normale che 80 non trovino lavoro o debbano reinventarsi in altre occupazioni non sempre in linea con il proprio percorso di studi.

Dire che “fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere” è un insulto alle centinaia di migliaia di maestri e professori che ogni giorno con dedizione insegnano la nostra splendida lingua a bambini e ragazzi di tutte le età.

È un insulto a tutti gli addetti del mondo dell’editoria, della comunicazione ed è un’affermazione di grande ignoranza.

I giornalisti come Stefano Feltri però abbiamo imparato a conoscerli con il tempo, loro che riducono ogni settore dello scibile umano ai soldi, alle cifre e all’economia e quindi li ripaghiamo con la stessa moneta: “secondo gli ultimi dati forniti dalla Farnesina, l’italiano passa dal quinto al quarto posto tra le lingue più studiate al mondo, con un totale di 687mila studenti stranieri, dislocati in 134 scuole italiane all’estero, 81 istituti di cultura, 176 Università e numerosi enti pubblici e privati”.

Devo aggiungere altro?

Francesco Giubilei

Francesco Giubilei (Cesena, 1 gennaio 1992) è direttore editoriale di Historica Edizioni e di Giubilei Regnani Editore e fondatore della rivista Cultora. Laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Roma Tre e in Cultura e storia delle imprese editoriali all’Università degli Studi di Milano, ha partecipato alla Summer School della London School of Journalism. È autore di “Giovinezza partitura per mandolino e canto” (Cesena, 2006), “Bastola la signora del fuoco” (Arpanet, 2008), “Chi è Charlie?” (Historica, 2011), “I Giovani e la Letteratura” (Historica, 2012), “La rinascita della cultura” (Giubilei Regnani, 2013). Con il racconto “La terza porta” ha ottenuto il primo premio al concorso letterario internazionale “Titano 2007″. Dopo aver curato per più di un anno e mezzo la pagina “Romagna cult” sul quotidiano “La voce di Romagna” ed essersi occupato della pagina dedicata al futuro, ha lavorato come responsabile marketing del giornale e continua a collaborarvi. Cura il blog Leggere è rock su Linkiesta e collabora con varie riviste e siti internet. Suoi racconti sono stati pubblicati in varie antologie.

L’articolo di Feltri rientra nella categoria del giornalismo frettoloso, o meglio “titoloso”, dove cioè compare un titolone tronfio e del tutto fuoriluogo, a volte nemmeno inerente all’articolo stesso, o incapace di fornire un corretto approfondimento (per i titoli esiste già l’Ansa). Detto questo, trovo molto offensivo che Feltri parli di ragazzi svegli e intraprendenti che scelgono facoltà scientifiche, al contrario di ragazzi evidentemente meno svegli che scelgono quelle umanistiche. Probabilmente Feltri non comprende il senso di essere portati per una materia piuttoste che per un altra. E’ possibile, inoltre, che se in questo paese la cultura non venga incentivata in alcun modo, sia grazie proprio a queste linee di pensiero; se ci ritroviamo in un paese che strozza l’editoria, fa chiudere biblioteche o lascia che certe ricchezze culturali vadano in decadimento, è proprio grazie e simili “ragionamenti”.
Perciò, è assolutamente vero che in Italia non c’è bisogno di tutti questi laureati in Lettere, Storia, Filosofia, Scienze Politiche, ecc… ma bisognerebbe andare oltre alla semplice lagnanza e chiedersene il motivo.

L’articolo di Feltri è l’ennesimo articolo di quella classe di pseudo-giornalisti che hanno fatto successo grazie a mezzucci privi di dignità. Inoltre è l’ennesimo pezzo che sputa fango sugli studi umanistici e sociali, scritto e propugnato da chi vorrebbe una società di ingegneri, medici e avvocati in cui lo spirito critico non si sa neppure cosa sia. Io, a 28 anni compiuti e con due lauree in storia, mi ritrovo al punto di dovermi reinventare perché non avendo un docente di riferimento ho dovuto rinunciare al sogno del dottorato e quindi della ricerca storica. Purtroppo nel sistema universitario italiano è impensabile che ci si presenti ad un concorso per un dottorato di ricerca, da esterno (in un ateneo diverso da quello in cui ci si è laureati), senza conoscere alcun docente e si pensi di potercela fare. Per non parlare di quello che aspetta ad ogni futuro dottore di ricerca: anni di precariato totale alla ricerca di un assegno di ricerca o di un progetto per lavorare sempre a scadenza, senza alcuna certezza. Nel frattempo nel mondo civile, dove per la ricerca e la cultura si spende quanto è giusto che sia, alla mia età ci sono già docenti universitari a tempo indeterminato. Perché non conta l’età, ma quanto sai e quanto vali. La nazione con il più grande patrimonio culturale, storico e artistico al mondo è quella che spende sempre di meno per la propria cultura, per la propria storia e per la propria arte. Meglio buttare i soldi in costosi aerei militari o in riforme deleterie. Viva l’Italia. -_-

P.s.: Mi rendo conto di aver preso la tangente, concordo sul problema del soprannumero nei corsi umanistici e della conseguente carenza di sbocchi lavorativi per tutti, ma il mio era uno sfogo che riguarda tanti neolaureati come il sottoscritto, i quali hanno studiato anni per inseguire i propri sogni e le proprie ambizioni e adesso si trovano in mezzo ad una strada.

Per aspera ad astra.

Ciao, hai scritto delle cose vere (purtroppo), che però non riguardano solo il mondo umanistico.
Per prima cosa, non è vero che una società di tecnici e scienziati è priva di spirito critico; credimi, anche noi persone di scienza vorremmo tanto che nelle persone fosse diffuso un po’ di pensiero critico. Il fatto che non sia coltivato nelle persone dipende dal fallimento del sistema d’istruzione italiano, che fallisce in modo tristemente democratico in tutti i campi del sapere umano.
Secondariamente, le discipline scientifiche non se la passano molto meglio. Forse beneficiano di una certa quantità di fondi in più, ma costano anche molto di più, quindi il senso d’incompletezza e l’incapacità di lavorare in condizioni veramente formative sono presenti anche da noi, credo in misura non dissimile. La situazione è poco rosea anche quando si parla di dottorati, seguendo l’esempio che hai fatto tu: anche da noi ci sono poche borse (certo, poche è sempre meglio di nessuna) e le raccomandazioni, in situazioni del genere, diventano un fenomeno importante e pesantissimo.

Non volevo assolutamente ritenere che il problema sia solo inerente alle materie umanistiche, anzi. Ormai tutte le discipline teoriche per eccellenza sono screditate da chi vorrebbe solo ingegneri, medici e avvocati, senza pensare alle conseguenze di un pensiero del genere. Anziché pensare a come dare lavoro a tutti, si cerca di peggiorare ulteriormente l’attuale status quo. Feltri parla come chi ha la tavola ben apparecchiata e si è potuto permettere di studiare là dove, pagando fior di quattrini, il pezzo di carta con tanto di voto alto te lo danno sicuramente. Ma se questi sono i risultati, non si può fare a meno di dubitare come certe università andrebbero ridimensionate a quello che sono in realtà, laureifici. Per quel che mi riguarda, da ora in avanti mi terrò in disparte. Questi dibattiti, messi in moto da persone come Stefano Feltri, meritano solo la nostra più totale indifferenza.

Si però mischiare due cose che non c’entrano niente non dimostra che quello che dice Feltri sia sbagliato. La passione e la predisposizione alle materie umanistiche sarà una bella cosa ma non si può dire che sia una buona scelta economicamente. I dati parlano chiaro. Magari i posti di lavoro ci sono ma sono distribuiti dove ce n’è più bisogno? Non credo. Ma quell’articolo parlava solo di 3-4 percorsi e diceva che il saldo di un medico è 400 mila euro comparato con quello di un informatico che è di 50 mila euro. Curiosamente non c’erano i dati degli ingegneri. Ma un ragazzo che si mette subito a lavorare invece di iscriversi in una facoltà che non gli piace solo per prendere il pezzo di carta o per pressioni dei genitori non fa il bene di questa facoltà come dice nell’articolo? Farebbe anche il suo bene economicamente. Avere la massima informazione possibile aiuta nelle scelte i ragazzi.

La scelta economica non c’entra nulla: se una persona non è portata per degli studi che riempiono il portafoglio dovrebbe cimentarcisi comunque? Che l’Italia non abbia bisogno di tutti questi laureati (che escano da facoltà scientifiche o umanistiche) è ovvio: una buona percentuale di ragazzi si iscrive all’università per prolungare gli studi, non per approfondirli. Se quella buona percentuale andasse a lavorare anzichè intraprendere l’università come un qualcosa di dovuto, non ne gioverebbe solo il loro portafoglio, ma anche quello di chi la laurea la consegue con diligenza e passione.

Il punto è che l’articolo di Feltri ha il medesimo tono di un discorso fatto al bar. Siuramente il motivo economico è importante nella scelta di un percorso di studi; ma credo che si stia perdendo di vista il valore della persona in quanto individuo con specifiche caratteristiche e vocazioni. In una buona società, chi è portato per l’ingegneria fa l’ingegnere, e chi è portato per la letteratura si occupa di letteratura. O dobbiamo forse andare verso una società di ingegneri? Che la realtà dimostri che il medico guadagna tanto e il letterato poco è davanti agli occhi di tutti. Quel che ci si aspetta dal giornalismo è quel piccolo salto in avanti, quello sguardo che vada un poco oltre. Insomma, che non sia banale.

Domandiamoci perchè il nostro paese non investe nulla nella ricerca (in campo umanistico) e nella cultura, piuttosto che spingere i ragazzi a iscriversi all’università sulla base di un discorso meramente economico.
Perchè se le lauree umanistiche non danno sbocchi lavorativi, è proprio perchè il nostro paese non investe nella cultura.

I dati parlano chiaro, sì, non c’è alcun dubbio: studiare le materie umanistiche non conviene al portafogli. Come negarlo. Un’asserzione oggettivamente corretta… Ma raggelante. Annichilente. Mi dà i brividi. Non trovate ci stia sfuggendo qualcosa?! Prestiamo attenzione a quel “non conviene al portafogli”. Ripeto: al portafogli. Non è alla persona che non conviene, è al Portafogli. Alle scuole elementari mi hanno insegnato che in analisi grammaticale esistono sei pronomi personali: io, tu, egli, noi, voi, essi. Ora i pronomi personali sono diventati sette: il Portafogli, io, tu, egli, noi, voi, essi. Prima persona singolare: il Portafogli. Eh sì, caro Io. Il Portafogli ti ha rubato il posto. Ogni Io è stato sostituito da il Portafogli. Ha un ruolo grammaticale importante il Portafogli: è un nuovo pronome. In quanto tale, il Portafogli può stare al posto di qualsiasi nome. Nomi come Elisa, Luigi, Paolo, Francesca e via dicendo possono essere sostituiti in qualsiasi istante da “il Portafogli”. Avremo quindi frasi come “il Portafogli sceglie”, “il Portafogli studia”, “il Portafogli vive”. Tanti Io annichiliti da “il Portafogli”. Al Portafogli oggi non piacciono le materie umanistiche. Al diavolo la letteratura, l’arte, la storia, la filosofia; marciscano musei, biblioteche, librerie: tutta roba scaduta, roba da bohémien. Al Portafogli importa solo di essere bello pieno.
Uno schifo.
Sono un’idealista. Anzi, sono un’illusa. Magari un giorno coi miei bei libri di letteratura ci incarterò il pesce. Forse il trentatreesimo canto del paradiso avvolgerà un buon salmone. Ci sono buone probabilità. Una cosa è certa però: da donna, se mai un giorno sarò madre, non dirò mai ai miei figli di studiare per riempire un portafogli. Dirò loro di riempire sé stessi, perché sono persone. Dirò loro che i pronomi personali sono sei: io, tu, egli, noi, voi, essi. Dirò loro che il portafogli non è un pronome, non sta al posto del loro nome. Dirò loro che il portafogli non verrà mai prima di loro stessi.

D’accordo, ma non c’è solo questo. I dati parlano chiaro, sì, non c’è alcun dubbio: studiare le materie umanistiche non conviene al portafogli. Come negarlo. Un’asserzione oggettivamente corretta… Ma raggelante. Annichilente. Mi dà i brividi. C’è qualcosa che sfugge. Sfugge quel “non conviene al portafogli”. Ripeto: al portafogli. Non è alla persona che non conviene, è al Portafogli. Alle scuole elementari mi hanno insegnato che in analisi grammaticale esistono sei pronomi personali: io, tu, egli, noi, voi, essi. Ora i pronomi personali sono diventati sette: il Portafogli, io, tu, egli, noi, voi, essi. Prima persona singolare: il Portafogli. Eh sì, caro Io. Il Portafogli ti ha rubato il posto. Ogni Io è stato sostituito da il Portafogli. Ha un ruolo grammaticale importante il Portafogli: è un nuovo pronome. In quanto tale, il Portafogli può stare al posto di qualsiasi nome. Nomi come Elisa, Luigi, Paolo, Francesca e via dicendo possono essere sostituiti in qualsiasi istante da “il Portafogli”. Avremo quindi frasi come “il Portafogli sceglie”, “il Portafogli studia”, “il Portafogli vive”. Tanti Io annichiliti da “il Portafogli”. Al Portafogli oggi non piacciono le materie umanistiche. E allora al diavolo la letteratura, l’arte, la storia, la filosofia, il cinema; marciscano musei, biblioteche, librerie, teatri: tutta roba scaduta, roba da bohémien. Al Portafogli importa solo di essere bello pieno.
Uno schifo.
Sono un’idealista. Anzi, sono un’illusa. Magari un giorno coi miei bei libri di letteratura ci incarterò il pesce. Forse il trentatreesimo canto del paradiso avvolgerà un buon salmone. Ci sono buone probabilità. Una cosa è certa però: da donna, se mai un giorno sarò madre, non dirò mai e poi mai ai miei figli di studiare per riempire un portafogli. Dirò loro di riempire sé stessi, perché sono persone. Dirò loro che i pronomi personali sono sei: io, tu, egli, noi, voi, essi. Dirò loro che il portafogli non è un pronome, non sta al posto del loro nome. Dirò loro che il portafogli non verrà mai prima di loro stessi.