Perché un romanzo che profuma di tango argentino

Perché l’Argentina? Perché un libro sui desaparecidos? Perché un libro sulle Madres e Abuelas di plaza de Mayo? Perché il perfido rapporto tra dittature e calcio? Perché. Perché. Perché. In tanti tra editor e direttori editoriali mi hanno formulato questa domanda quando proponevo ‘Il profumo dell’ultimo tango’ e snocciolavo trama e personaggi. E, in verità, non è che fossi preparato alla risposta. Mi andava quasi di rispondere in modo impertinente, ‘e perché no?’.

Sembravo uno di quei visionari che girano le fiere editoriali e si trasformano dopo aver divorato al bar un tramezzino formaggio&prosciutto (cotto) in un supereroe postmoderno in perenne posa marinettiana: cioè un piazzista. Uno pronto a prostituirsi intellettualmente pur di persuadere che la sua opera non è dettata dalla presunzione ma dall’emozione. E, soprattutto, è diversa, ha una voce stonata, perché fuori dal coro.

E già, perché? Poi, mi sono interrogato anch’io. Perché per scrivere a volte non è sufficiente avere un’idea, svilupparla e renderla architettura narrativa. E allora capisci che tra comunicare, sensibilizzare, persuadere, sedurre resta una necessità umana quella di fare i conti con se stessi, di chiedere scusa, di andare oltre le giustificazioni di comodo, scardinando le gabbie dell’omologazione. Potrei raccontare di quando bambino intimavo a mio padre di svegliarmi durante le notti estive per seguire le partite dei Mondiali in Argentina. Era il 1978. Avevo 8 anni, ma già consumavo nell’assolata Latina suole per calciare il pallone imprimendovi ogni tipo di direzione e mi fiondavo la sera sul terrazzo a leggere i classici dell’avventura. Lì venni a contatto con quella realtà. Quella argentina. Mio padre mi sussurrava le notizie che trapelavano da quel Paese, con tutti i difetti e i peccati delle nazioni latinoamericane, coi militari che restringevano la libertà a ogni respiro. E mia madre, davanti alla tv, gli andava dietro: ‘guardate quei tifosi, vestono, si muovono e parlano come noi: sono italiani’. E sì, sono italiani. Vero. Ancora oggi. Internet non era ancora vagheggiata da nessun informatico visionario ma ero un divoratore di riviste, fumetti e fanzine che venivano sbrigativamente etichettate come controcultura e sottocultura, anche se poi l’omologazione borghese e cattolica italiana schiacciava le perplessità genuine di un bambino di provincia. In più non sopportavo quei contenitori pomeridiani che la tv di Stato sfornava, mi deprimevano, preferivo il pallone e la lettura.

È a distanza di anni che hai la percezione che quello che in maniera presuntuosa sospettavi si tramuta poi in realtà tragica: le Ford Falcon che ringhiano sull’asfalto, l’arroganza delle patotas, i bambini sottratti alle famiglie, le torture imposte dal governo, i desaparecidos, i girotondi strazianti delle Madres attorno all’Obelisco di plaza de Mayo, i voli della morte… sono diventati nel tempo dei frammenti che si sono accavallati fino a creare un film completo. Tu credi che tutto appartenga al passato, invece no. Perché quando i conflitti sono irrisolti sono sempre attuali, li covi dentro.

Certo, poi nel 2018 si celebreranno con una cifra tonda i quarant’anni di quella farsa che sono stati i Mondiali di calcio in Argentina, quelli in cui è stata celebrata la dittatura militare di Videla e dove il mondo ha avallato i suoi crimini. Lo sport più bello e sociale del mondo strumento di propaganda e di consenso verso le masse. Per lobotomizzare. Inammissibile. La trama de ‘Il profumo dell’ultimo tango’ va anche controcorrente, nei buoni troverete metastasi da carnefici e nei cattivi tracce di bontà (sennò che seguace del noir sarei?), si nutre del Nunca Màs, è un romanzo di rottura che rifugge facili omologazioni e schemi consolidati, perché ho scoperto che forse romanzi d’evasione tout court non sono capace di scriverli. O meglio maturo sempre più la convinzione che un romanzo debba possedere tre elementi fondamentali: fotografare la realtà, documentarla, vivisezionarla, dove il narratore parlerà senza miele sulla lingua; contenere solide tracce d’evasione (con tutte le vite che sono racchiuse nelle sue pagine), per condurre il lettore in un’altra dimensione, in un altrove dove la fusione tra letteratura e realtà si concretizza; infine, il libro deve essere uno strumento di denuncia, di grido, di presa di coscienza, di formazione, che animi il dibattito per affrontare un tema, che formi le coscienze e che migliori le nostre vite. Niente di nuovo, lo so. Ma so’ concetti che vanno ribaditi.

Ah già, perché l’Argentina, allora. Quella stessa domanda mi è stata posta anche a Buenos Aires, nella primavera scorsa, quando ero impegnato nelle battute finali del romanzo, cercando di imprimergli le ultime pennellate con gli odori, i suoni, i colori di quella splendida metropoli che ha accolto la globalizzazione ancor prima che il marketing facesse proprio questo termine. Ero a cena con i miei amici argentini Adriana, Marina e Marcelo, che mi chiesero ‘perché’? E la risposta è stata immediata, istintiva, diretta.

Con questo romanzo provo a chiedere scusa all’Argentina per la mia indifferenza di bambino, prima, e di adolescente dopo. Ecco cosa risposi. Certo, nessuno mi ha mai accusato di nulla. Ma a volte l’indifferenza resta la peggiore delle reazioni umane. E nella testa di adolescente, e fino a oggi, mi è sempre rimbalzata l’odiosa frase del governatore della provincia di Buenos Aires Ibérico Manuel Saint-Jean pronunciata nel maggio del 1977 che sintetizza l’orrore in cui viveva un popolo: ‘Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi’.

C’è un’altra risposta a quella domanda? Non lo so se c’è. M’interrogo ancora, anche adesso che il romanzo verrà pubblicato e verrà letto. Non saprei cosa rispondere.

So che, però, io all’Argentina ho chiesto scusa.

Gian Luca Campagna

Redazione

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