Parole alla fine dei mondi #1. Scrittura

di Isabella Moroni, in Blog, del 5 Dic 2014, 13:54

Da tempo continuo a sognare un mondo dove tutti possano scrivere. Senza limiti e senza obiezioni.
Scrivere è, infatti, una delle ginnastiche più risananti che esistono. Scrivere è un atto nutritivo, è un’azione curante, allena ogni più piccolo muscolo. Scrivere accarezza e propizia.

E rende felici, come racconta Roberto Cotroneo nel Il sogno di scrivere (Utet), un libro che dovrebbero leggere tutti coloro che amano la scrittura e la lettura: “Oggi conta quello che vuoi raccontare. Nessuno vuole diventare famoso scrivendo. Semmai vuole diventare felice, che è un’altra cosa. Prima felici, poi, al massimo, famosi. La felicità di aver scritto qualcosa che volevi leggere. E che potevi scrivere soltanto tu. Perchè è la tua storia, solo la tua.”

E scrivere rende più sani. Tutti, soprattutto i lettori che possono, ad un tratto, ritrovarsi in parole che fino ad allora non gli appartenevano.
Perché scrivere è anche una questione di appartenenza. E di identificazione.

Chi scrive lo sa, perché si ferma a guardare gli altri, li fa diventare istanti della propria narrazione. O anche solo ombre, virgole, punti. Spesso punti esclamativi.
Fatto sta che ogni storia nasce da un ricordo, da una felicità, da un sogno, da un pezzo di vita proprio, personale e inalienabile, che improvvisamente diventa ricordo, felicità, vita e sogno di tutti. I lettori.
È per questo che, ogni volta che ci imbattiamo in una storia, ci auspichiamo che i residui delle tempeste -sempre come ci dice Cotroneo- arrivino sulla spiaggia di ciascuno di noi: “Le tempeste sono personali e collettive, sono nella propria anima e nell’anima di tutti”.

Il primo rifiuto da una casa editrice l’ho ricevuto a venticinque anni. Fiera del mio romanzo dai toni decadenti e genettiani (Jean Genet è stato uno scrittore che ha lasciato sulla mia spiaggia i resti di innumerevoli tempeste e sogni personali) lo avevo proposto ad Adelphi grazie a Bianca Garufi, l’affascinante Leucò di Cesare Pavese, che forse mi voleva un po’ troppo bene.
Furono gentili e, nella breve lettera con la quale accompagnarono il rifiuto, scrissero molto precisamente che il mio manoscritto era interessante e suggestivo. Ma solo per me: “… ci è parso, però, che non acquisti quella ricchezza di senso da cui il lettore possa essere veramente attratto e coinvolto…”.

Perché una scrittura può essere anche molto bella, ma deve, soprattutto, essere capace di scatenare l’immaginario, quello che finora non avevamo visto, ma che lo scrittore ci costringe ad immaginare.

E le case editrici dovrebbero tornare a fare quello che fece Adelphi trent’anni fa: valutare lo scrittore, dargli delle indicazioni, correggerlo, prenderlo a cuore.
Perché un editore è l’imprenditore che costruisce cultura. Invece di case o autostrade. Ma il rischio che si assume e l’impegno che ci mette sono gli stessi.
Ed anche i denari. E ciò che pubblica è il carburante della sua impresa.
Non ci sono alternative. Ogni altro percorso è un inganno.
Un editore deve essere perspicace e attento, circondarsi di collaboratori che conoscono il loro lavoro, dare alla propria pubblicazione un plus. Sono questi gli investimenti che contano, anche se il mondo sembra andare in altre direzioni, anche se c’è il selfpublishing.

Ma scrivere dovremmo tutti, perché per iniziare a scrivere basta un profumo, un’immagine, un pensiero che d’improvviso si trasformano in una storia.
Dovremmo scrivere per crescere e fiorire. E scrivere senza curarsi di chi, su questa pista di atterraggio fatta di pensieri e parole, rabbie e certezze che è il web letterario, marchia a fuoco e senza troppo esitare, qualsiasi scrittore che non sia parte di qualche clan, lobby o circolo del cucito.

E diciamolo. Non tutti quelli che scrivono in realtà vogliono pubblicare. Il vero sogno di colui che scrive non è organizzare infinite presentazioni nel corso delle quali firmare copie del proprio libro e diventare famoso.

Chi scrive vuole inventare. Inventare nuovi mondi e nuove cose, oppure solo raccontare la vita che vorrebbe. Ed arrivare fin dentro ciò che guarda e ricordare e meravigliare.

Isabella Moroni

Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, mi dedico da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Direttore del magazine on line “art a part of cult(ure)” sono stata per dieci anni direttore responsabile del mensile “Carcere e Comunità” e co-fondatrice di “SOS Razzismo Italia”. Nel 1990 ho fondato l’Associazione Teatrale “The Way to the Indies Argillateatri”. Collaboro con diverse testate e mi occupo di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web. Amo soprattutto tre parole: libertà, semplicità, sogno.