Moreno Pisto è il nuovo direttore di Urban: “i giornalisti indipendenti esistono ancora”

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Urban è pop. È colore. È musica. È moda. È cinema. È cultura. Cultura del lifestyle, della vita. Dei rumori della città, e dei suoi colori. Chi vi scrive, la vive. E ora Urban ha cambiato direzione, la direzione, perché c’è un nuovo direttore. Lo intervistammo quando era “solo” un giornalista e un caporedattore. Oggi lo ospitiamo di nuovo, Moreno Pisto, e cerchiamo di capire in che direzione stanno andando Urban, il giornalismo, e lui.

Durante la scorsa intervista abbiamo parlato di molte cose, incluso il suo lavoro come giornalista per Riders. Ora, a distanza di pochi mesi, è il direttore di Urban. Cosa è successo nel frattempo?

Non è successo granché. Il mio editore, Diego Valisi, mi ha chiesto se me la sentivo di prendere in mano un altro magazine del gruppo e io ho detto subito di sì, perché Urban lo sento molto mio: è un giornale con una storia forte, basti pensare che ha 15 anni di vita, ma allo stesso tempo, per sua natura, si presta a essere un media pronto a qualsiasi sperimentazione, condannato a essere sempre contemporaneo, quindi sempre aperto ai cambiamenti.

È uscito il primo numero di Urban sotto la sua guida. Dai numeri precedenti di cosa ha fatto tesoro e cosa ha cambiato?

Del primissimo Urban, che fu un caso editoriale mica male, ho recuperato un po’ di cose. Innanzitutto il logo, poi il pay off euro zero, che quando l’ho visto scritto riguardando i primi numeri, mi è subito piaciuto. Infine la guida alla città, che aveva ceduto il passo alle recensioni sul web, ma adesso che sul web c’è di tutto ho pensato fosse giusto recuperare questa parte e offrire a chi ci legge un punto di riferimento. Ah, poi l’editore ha deciso di tornare a puntare sulla carta da quotidiano. Scelta fondamentale, per il carattere che trasmette, per le dimensioni che offre e per i costi bassi che si porta dietro. In questo modo riusciamo a stampare tirature notevoli. Per esempio, al Salone del Mobile, solo su Milano, saremo presenti con 30mila copie, un numero impressionante per un magazine in una singola città.

Dove lo vuole portare, Urban?

Per sua natura Urban è e dovrà essere un territorio di sperimentazione. Vorrei portarlo a diventare un punto di riferimento per chiunque sia interessato ai nuovi linguaggi, alle nuove estetiche, alle sperimentazioni. Un giornale che stia sulla frontiera, laddove i cambiamenti succedono. E che tutto questo avvenga su un magazine (e non su un sito o un’app o chissà dove) mi piace, e mi piace assai.

Dove pensa la porterà?

Ah, bella domanda. Non lo so, non ne ho idea. L’importante è dare il massimo ora e divertirsi.

Nel contesto del giornalismo italiano, qual è o quale dovrebbe essere l’obiettivo di un magazine di lifestyle?

Con sincerità? Gli obiettivi sono sempre due, uno evidente, l’altro meno. Uno: avere successo commerciale, renderlo virtuoso e sostenibile. Due: avere un pubblico di riferimento chiaro, netto, che ti segue. Questo per Urban è difficile, perché essendo un not for sale non lo devi andare a comprare ma lo trovi, quindi la sua distribuzione non è legata a chissà quale motivazione all’acquisto. Ma allo stesso tempo è molto semplice, perché una scelta la fai già decidendo che tipo di giornale fare e in quali location farti trovare. Proprio per questo Urban si può permettere di essere un giornale più liquido, quindi più catching per il suo pubblico di riferimento, i cosiddetti millennials. Può sembrare un paradosso, sì, perché carta stampata e millennials in teoria non dovrebbero andare tanto d’accordo. Ma è anche vero che ci siamo sforzati di fare un Urban molto visual, con immagini forti e provocatorie, soprattutto nella prima parte, con pochi testi e tanti stimoli. Operazione riuscita? Mi sembra che stia andando bene. In molti luoghi in due settimane è andato esaurito. Ed è altrettanto vero che Urban non sarà, e già adesso non lo è più, solo carta stampata, ma ragiona come network: per ogni numero che esce abbiamo in programma eventi, iniziative, strategie social, mostre.

Tema attuale: fusione L’Espresso-Itedi. Come si esprime?

In linea di massima sono favorevole. L’Italia è un Paese troppo piccolo e con numeri troppo limitati, è normale che gli imprenditori cerchino strategie per ingrandirsi e affacciarsi con più potenza sul mercato, anche per fronteggiare meglio le nuove (nuove? ormai mica tanto) potenze Google, Facebook, Amazon. I social, lo ripeto spesso, cannibalizzeranno anche gli stessi siti. Il New York Times e l’Atlantic hanno stretto accordi con Zuckerberg per pubblicare articoli senza postare un link che rimandi ai propri siti, La Stampa si è mossa in tal senso. Se ti presenti da Facebook con numeri più grossi hai più potere di trattativa, è chiaro. E questo è solo uno degli aspetti. Poi, ovvio, c’è anche l’aspetto “potere”.

Il sentimento comune dei lettori e di alcuni giornalisti è di sconcerto per la progressiva perdita di indipendenza delle testate nazionali e di timore per un’informazione che rischia di essere monopolizzata. Se fosse dall’altra parte (degli imprenditori) non vorrebbe inglobare quante più testate possibile, in barba all’indipendenza?

Parliamoci chiaro: da quando l’indipendenza dell’informazione è in mano ai grandi gruppi? O meglio: anche in passato l’informazione è stata manipolata, in Italia e ovunque. Però, questo non ci ha evitato di avere delle inchieste giornalistiche meravigliose. Perché alla fine chi sceglie di fare questo lavoro lo fa per amore, e allora il direttore che se ne fotte di tutto e anche davanti alla notizia che imbarazza un potente dice “ok, pubblichiamo!” lo trovi sempre. Che poi tutto questo sia inserito in un meccanismo complesso e complicato è chiaro. Soprattutto in questo periodo di cambiamenti radicali.

Esistono ancora il giornalismo e il giornalista indipendente?

Giornalisti indipendenti, sì. Un giornalismo indipendente, non lo so. Spesso il giornalismo di giornalisti indipendenti è dipendente dalle convinzioni degli stessi giornalisti indipendenti. Per orientarsi vale un concetto semplice: fare al meglio quello che uno si sente di fare.

Ipotesi: insegue un ideale. Quale?

Fare sempre qualcosa che mi faccia stare bene e che mi diverta. Se uno si diverte è più facile che sia bravo in quello che fa.