La terra promessa di Sweet Home Europa

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Una storia che si tramanda da generazioni narra di un grande giardino. Un Eden, una terra promessa. Alcuni vi sono rimasti, altri sono stati scacciati. Si vive nel deserto; si è in tanti, ma si muore di fame. Qual è allora la morale?
Non senza una marcata ironia, Sweet Home Europa, di Davide Carnevali, regia di Fabrizio Arcuri, mette in scena il dramma dell’integrazione al Teatro India di Roma. È però una realtà distorta nell’astrazione, passata attraverso un setaccio, adatto a coglierne gli elementi ricorrenti. Tra pareti nere e pavimenti di legno, la storia si fa ripetizione eterna di vissuti dalla validità universale. Abbiamo un Uomo, Michele Di Mauro, una Donna, Francesca Mazza, un Altro Uomo, Matteo Angius: intorno a loro una macro-area; un mare; un deserto; spiragli di un giardino che si staglia su uno sfondo lontano, di esplosioni e fumo. Alla fine di tutto, un branzino.

Non si tratta solo delle vicende di uno straniero. La dimensione frammentaria, eppure interconnessa, porta sulla scena l’Europa e la sua Unione: dodici sono le cornici, dipinte a partire da una geometria alienante, semifluida. Sono le vite di personaggi, apparsi dalla nebbia come manichini, pronti ad assumere le voci più disparate. Tremendamente concreti e palpabili, gesti e parole si fondono fra loro per poi ritornare, con diversi legami, tra nuove generazioni. Si passano il ruolo a vicenda, mentre si muovono in un vasto mondo, marcato da una frattura insanabile ed insana. È ancora la vecchia metafora del giardino e del deserto, della cultura colonizzatrice e del paese schiantato ai suoi piedi. Si potrebbe parlare dell’altra faccia dell’Europa: l’arroccamento sulla collina dei ricchi e potenti, mentre intorno la terra scivola fra le sabbie di un deserto in fiamme. Le persone ed il mare sono trascinate assieme al resto, senza accorgersi che non c’è scampo: voltare le spalle è una condanna a doppio taglio. Vediamo allora un ambasciatore rifiutare il cibo di una ricca tavola; ma sono letteralmente scintille ad accendersi e divorare il ripiano. È la polvere da sparo che brucia una terra, la sua, finché l’Uomo d’affari non ne avrà conquistato il diritto ad estrarre quel che c’è sotto.
Siamo faccia a faccia con la perdita d’identità dell’Altro Uomo: è lo straniero che lascia la patria di fame, per perdersi in un luogo che non lo vuole. Senza identità, nessun posto è ormai casa. Esplode il soffitto, crollano oggetti; rovine di un bombardamento o resti di una civiltà che si consuma? Una voce canta dall’anfratto frantumato, tuona in una pioggia di scintille. È quella di NicoNote, sulle musiche composte ed eseguite dal vivo di Davide Arneodo e Luca Bergia (Marlene Kuntz), tra gli effetti speciali di Enrico Gaido e Riccardo Dondana, in una scenografia di Andrea Simonetti. È una voce lasciva, chiama aiuto; brilla come un liquido che sale dall’interno, dalla corporeità viva e presente di lei. Demolisce il vuoto, la divisione; è interprete e ponte, mentre sorprende in una pioggia di scintille. Sono le stelle morenti della bandiera europea: fuochi d’artificio che si consumano e cadono. La fine è come il cambiamento climatico: una tendenza universale contro cui nessuno sa davvero remare, mentre il Mediterraneo si trasforma in deserto. L’errore sta nel non saper abbracciare l’altro, nell’aver paura dell’incontro culturale, perché la Natura racconta di dolore e dominazione. Così, invece di tentare, di integrare, si è detto “sono fatti tuoi” a chi era stata promessa un’assistenza umana. Non è solo quello. Se costruire l’Europa vuol dire alzare un grande muro, un confine su cui fare la ronda contro gli Altri, gli uomini sulla sponda opposta, ecco che le stelle bruciano ancora più in fretta sulla bandiera. Si staccano e cadono, non senza risate.

Un umorismo caustico e decostruttivo attraversa tutta l’opera. È nascosto in un tono biblico, mentre si parla di rituali apotropaici e di coscienze collettive, sulla bocca di un branzino. Sta lì, in un dio che condanna un gatto, ma non è non-sense. Un vuoto spaventoso si nasconde nel silenzio aldilà delle parole. Un proiettore lascia leggere: “qui ci starebbe bene una musica catastrofica”. Così chiamata, esplode in una melodia meccanica ed interrotta: una batteria, una chitarra, ritorna la voce. La scenografia cambia. È un gioco scorrevole, un ricambio fluido di dinamiche ed ambienti, su pannelli in movimento che portano persone, divani, tavoli, gommoni. Impossibile non cogliere l’eco di una storia degli ultimi vent’anni: dal crollo del Muro al 2001, passando per la Depressione economica e la rinascita dei neo-nazionalismi. Sono però frasi non dette, sguardi, intuizioni lasciate in bella mostra. Sono dei fari accecanti che si illuminano, prima di creare il buio: la testimonianza di un fallimento, ma anche la speranza; il richiamo a ricostruire, ora che si intravede l’abisso.

Da uno spettacolo denso come Sweet Home Europa, si ottiene una visione raccoglitrice della contemporaneità ancora non scritta. Assistiamo ad un presente immanente, stratificato, inabbracciabile nella sua apparente omologazione collettiva. Come se fosse una piana di cui non si intravede il confine. Sweet Home Europa è questo: un tunnel nell’Unione, che procede ad una ricerca profonda nelle radici comportamentali di chi siamo. Ponendosi come un’entità impegnata nel rendere il reale per intero, cerca di essere uno “spettacolo mondo”. Lo fa, con un cast di artisti affascinante. Gli attori maturano nello spazio una voce profonda, dall’impostazione epica. La lasciano girare con leggerezza, calare negli attimi più ironici e di semplice umorismo. Non crollano mai da un piedistallo di concreta gestione della persona, nel suo rapportarsi con se stessa e con l’ambiente. Gesti ed espressioni sono fuse nell’illusione scenica, senza lasciare un’impressione di pesantezza. Al contrario, pur nell’attimo più banale, si coglie l’energia che carica il corpo: è una nebbia oscura ma densa, come una grande massa d’angoscia e spaventosi meccanismi umani. Così la drammaticità resta spesso nascosta, ma permea l’aria. Può capitare che esploda, o si liberi dal nero e si contorni di una positività lottante, amara e ferita. Parla di riscatto, anche se percossa. Difficile non lasciarsi coinvolgere dal tutto. Resta però l’impressione che sia solo un gioco: quello dell’Europa e della sua storia. Uno scherzo freddo, tramandato di generazione in generazione, mentre echi di guerre si alzano all’orizzonte.

Gabriele Di Donfrancesco
@GabriDDC

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