Eduardo Savarese. le inutili vergogne

foto di Daniela Zedda

“Rinunciare alla vita per paura non è la vera penitenza richiesta. Bisogna bandire le inutili vergogne, bisogna mangiare il frutto e poi metterlo da parte. L’anima si fortifica attraverso i digiuni quando essi sono una libera scelta, un dono con cui togliamo qualcosa dalla nostra vita e la immettiamo nello Spirito Creatore. Le astinenze, invece, quando sono amputazioni rigide e predeterminate dei nostri desideri più profondi, distruggono la pace.”

Dopo la magnifica prova di “Non passare per il sangue” E/O, Eduardo Savarese scava ancor più in profondità e lo fa senza alcuna cautela, da vero kamikaze della verità. “Le inutili vergogne” rende pienamente omaggio alla collana Sabot/Age perché è un sabotaggio a quanto di più radicato ci sia nella cultura cattolica: il senso del peccato e la necessità salvifica di rinunciarvi.

Il salto da “Non passare per il sangue”, bellissimo affresco di amori, di vite antiche e di legami forti, a “Le inutili vergogne” è di quelli difficili e senza rete. Non ha avuto paura di colpire troppo in profondità?

Molta paura! Da un lato, da cattolico, di urtare non solo e non tanto l’ufficialità della religione, quanto un sentimento di fede che non volevo trattare in modo aggressivo, o con sufficienza sprezzante. Dall’altro lato, c’è stata la paura di aver ‘contaminato’ troppo e troppi piani: carne/corpo e anima/spirito, sessualità e Chiesa, convenzioni sociali/norme di condotta e gesti di follia liberante, pie donne e trans gender in adorazione … Ma, come dice Ottavio a zia Gilda, avere paura di tutto è “intollerabile”.

Leggendo le pagine della visione che si materializza contro lo specchio nella camera da letto di Benedetto sale alla mente il termine “sacrilego”. Ma esiste ancora il senso del sacro?

Esiste un senso viscerale del sacro: certo, in Occidente si è sbiadito, soprattutto ad un certo livello sociale e/o culturale. Nel Sud, per esempio, è ancora radicato, soprattutto nel “popolo” (mi lasci passare l’espressione pre – rivoluzionaria, ma al Sud certe strutture sono rimaste immutate). Poi, ed è quello che mi interessa di più (quello che è emerso dai riscontri dei lettori, soprattutto), anche in chi apparentemente questo senso non lo ha più, c’è una profonda nostalgia di un Tempo e di uno Spazio per il sacro. O, più radicalmente, di una radice sacra della Vita.

Viviamo in una società estremamente schizofrenica nella gestione della “morale”. Tutto sembra concesso, eppure permane un senso del “peccato” saldamente ancorato a una visione ristretta di ciò che si può e ciò che non si può. Cos’è per lei il peccato?

Il mio maestro (autore della Postfazione del romanzo), Paolo Gamberini, mi diceva che la cosa più complessa – ma che merita la ricerca di una vita – è avere una corretta coscienza di cosa sia il peccato. Il peccato è associato e confuso con un moralismo pruriginoso. Questa dimensione è insopportabile e falsa. Per me, il peccato si addensa ogni volta che riduco il mondo a me stesso: “io, io, io”, sbandierato all’impazzata … Come vede, c’entra molto con la schizofrenia che citava all’inizio della domanda! Mi sembra che il mondo veda il trionfo di “io”, belanti e banali (a partire dal mondo della scrittura e dell’editoria). Farsi strumento per gli altri, al servizio degli altri: anche nell’arte, anche nella scrittura. Questo è l’antidoto al peccato.

Tutti i suoi protagonisti, a partire dalla zia mistica per finire al sacerdote, sono accomunati dall’essersi privati di ciò che realmente desideravano. Ma concedersi ciò che si desidera con tutta l’anima è la via della salvezza, posto che esista una salvezza?

Come in “Non passare per il sangue”, anche qui i personaggi sono creature che fanno i conti con la propria identità, con una domanda radicale: ma io chi sono? Che può declinarsi anche così, secondo me: nella profondità di me stesso – che quasi mai appare, che io stesso conosco poco o per niente – cosa desidero, a cosa tendo? Ecco, io credo che, alla fine, la salvezza stia nel sacrificio. Per amore. Non nei sacrifici per paura. Come vede, è un concetto assolutamente cattolico di salvezza … posto che esista una salvezza, cosa di cui, in molti giorni dell’anno, dubito.

Ci racconta, se ci sono stati, la critica più feroce e il complimento più bello che ha ricevuto per “Le inutili vergogne”?

La critica più feroce viene da un lettore: “un romanzo che mi ha levato l’ossigeno, un accostamento insopportabile tra omosessualità e cattolicesimo, una visione provinciale del gay ed una postfazione firmata da un gesuita …”. Il complimento più bello è sempre di un lettore: “adesso vedo tutto un orizzonte rosa che penso, spero almeno , essere un presagio di una nuova giovinezza. Il cuore, caro Eduardo, non computa gli anni come si fa comunemente, il cuore, se si vuole, può essere sempre giovane. Ti ringrazio per questa visione a cui avevo rinunciato, non credendola possibile, e che adesso mi pare un traguardo almeno da sperimentare”.