Dunkirk, l’importanza della vita tra le macerie della guerra

di CulturaMente, in Cinema, del 27 Ago 2017, 14:23

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Ho aspettato anni, e chissà quanti articoli scritti, per questo momento.

No, non parlo dell’attesa per il nuovo film di Christopher Nolan. Parlo della possibilità di iniziare una recensione con una sigla.

E allora bando alle ciance… sigla!

I quattro elementi primari, in Dunkirk, ci sono tutti. E non perché Nolan provi a fare un film metafisico o metaforico, anzi, semmai è l’esatto opposto. Ma perché Dunkirk è un film essenziale, elementare, puro, incontaminato, inadulterato, di quelli che nascono con un preciso scopo e non c’è modo di smuoverli da quel centro tematico.

Visivamente Nolan gioca a fare il David Lean, ma in realtà corteggia più Malick. Infatti, Dunkirk non è nemmeno un film di guerra come può sembrare. Per una volta la guerra non è il genere ma il protagonista stesso del film, inquadrata nella sua essenza primordiale. Non c’è sangue, non ci sono soldati feriti, non ci sono i tipici sbudellamenti o arti tranciati di questi film, non ci sono volti sporchi, perché ciò si riferisce agli umani. E gli esseri umani non sono i protagonisti di questo film.

In Dunkirk la guerra sono i rumori dei caccia che sorvolano le spiagge. La guerra è il dubbio che si inserisce su chi sia veramente il nemico. È l’odore di bruciato, la claustrofobia delle navi da salvataggio, la vista di una casa che non si può raggiungere. La guerra è il mare stesso, che ti può accogliere o affogare. È la corsa senza una meta.

Lo scopo è la sopravvivenza. Salvare la vita, salvare la sua importanza, metterla in primo piano opposta alla morte senza sovrastrutture mentali.

Togliere le sovrastrutture vuol dire praticamente lavorare in sottrazione, e anche se stona dirlo davanti allo spettacolo visivo del film, è esattamente ciò che Nolan fa. Toglie la gloria, toglie la retorica, l’eroismo, l’emotività spicciola. Sì, ancora tutti gli attributi umani. L’empatia nel film non si raggiunge con la connessione nei personaggi, quasi tutti anonimi per tale scopo, ma con l’immedesimazione universale nella ricerca di sopravvivenza.

Addirittura toglie, nell’atto più estremo, la ricerca della gioia: Dunkirk è il racconto di una sconfitta, non dimentichiamolo. Questo aspetto, questa scelta storica, probabilmente lo trasforma in uno dei film di guerra più audaci mai visti, ancora più della costruzione visiva e sonora.

Non a caso, tutti gli esseri umani sono accomunati dalla sconfitta contro un nemico invisibile ma palpabile. Tutti noi, senza distinzione alcuna, una massa globale anonima come i soldati del film. Corriamo, scappiamo, proviamo a sopravvivere in tutti i modi, ma il traguardo ultimo è la sconfitta inevitabile. Nessuna può fare alcunché contro il tempo.

Il vero antagonista del film, come in tutto il cinema di Nolan, è il tempo.

La struttura del racconto non è solo l’ennesimo gioco a scatole cinesi, molto caro al regista. Le tre linee narrative e temporali – una settimana per la spiaggia, un giorno per il mare, un’ora per il cielo – raccontate e montate contemporaneamente rappresentano la confusione a cui vanno incontro i soldati, lo stress a cui sono sottoposti tra momenti di calma apparente e fuga improvvisa di fronte a more certa. Il mix temporale, in cui uno dei momenti narrati dura in realtà sempre più degli altri, esattamente come in Inception e poi come in Interstellar, rappresenta la guerra personale di Nolan contro il tempo, la sua volontà di incastrare nel tempo del racconto di un film il tempo dilatato degli eventi reali.

Christopher Nolan è uno dei due più grandi indagatori e narratori cinematografici del tempo; l’altro è Richard Linklater. Ma se il cinema di quest’ultimo inquadra il tempo in maniera riflessiva, elegiaca, meditativa, come strumento dell’indagine personale ed emozionale, Nolan ha una vera guerra aperta contro il tempo affrontata con le armi irrazionali della narrazione cinematografica e vissuta con un senso d’urgenza costante e umana predestinazione.

Così come il ticchettio costante della colonna sonora di Hans Zimmer, Dunkirk è un film sempre in movimento. Non c’è respiro, non c’è pace, un secondo prima rimaniamo estasiati dall’impatto visivo e un secondo dopo siamo colti dall’ansia di metterci a riparo da qualcosa. Non si può rimanere fermi in Durkirk, perché fermarsi significa arrendersi al tempo che passa inesorabile.

La risposta all’urgenza è la serenità. E allora la risposta ad un nemico invincibile non può che essere la metafora del ritorno a casa, la definitiva ricerca di tranquillità e semplicità.

I film di Nolan sono spesso stati accusati di esseri freddi. Una critica quantomeno discutibile (che facevano anche a Stanley Kubrick, e allora inizierei a considerarla un complimento) vedendo tutti i finali dei suoi film interamente costruiti sull’emotività. Quasi tutti, c’è da dire, sull’abbraccio con un figlio, o sull’universale bisogno di tornare a casa. È paradossale che Nolan risponda a tale critica con un film plumbeo, asciuttissimo, sobrio, in cui gli accenni al patriottismo sono sostituiti da richiami all’umanità di base.

Ma la freddezza, ancora una volta, è davvero da un’altra parte. Dunkirk è un film che mostra la guerra come un archetipo, il tempo come manifesto del male, l’umanità come simbolo del bene. È un enorme spettacolo visivo, un’esperienza cinematografica come pochissimi ormai sanno realizzare, un blockbuster dalle esigenze commerciali che si concede il lusso di sperimentare e ribaltare il genere di riferimento, riuscendo ad affiancare epica ed intimità. E racconta, perché purtroppo nell’anno del Signore 2017 ce ne è ancora bisogno, l’importanza di salvare vite umane, senza bandiere di riferimento, ricorda l’importanza di avere una casa a cui tornare, o la possibilità di crearne una, mostra il trionfo della vita sulla morte.

È, riassumendo tutti i concetti e le mie tante parole, cinema con la C maiuscola.