Tra Shakespeare e il lettore: un dialogo durato 400 anni

Shakespeare

Della sua vita sappiamo poco. Un mistero, a detta di alcuni, la sua vera identità. Nonostante la mancanza di riconoscimento negli anni immediatamente successivi alla scomparsa, le sue opere, grazie anche al contributo del critico Ben Jonson (1572-1637), sono divenute parte della cultura e della coscienza occidentale. Il genio di William Shakespeare è da tutti considerato immortale. Sono passati esattamente quattrocento anni dalla sua morte, il 23 aprile 1616, e il mondo, a gran voce, desidera celebrarlo in ogni manifestazione artistica. Dai festival ai concorsi di poesia, dagli spettacoli ai progetti musicali.

Un omaggio moderno, che non resta inosservato, quello della metropolitana di Londra: la società dei trasporti, che ha lanciato l’iniziativa in collaborazione con il Globe, ha rinominato tutte le fermate dedicandole ai più celebri personaggi del Bardo dell’Avon. Anche l’Università di Oxford ha annunciato un programma di conferenze di alto livello in spazi inusuali e suggestivi. Non meno importante la rassegna teatrale di Verona: la città di Romeo e Giulietta ospiterà otto capolavori mondiali realizzati da grandi maestri quali O. Welles, F. Zeffirelli, K. Branagh e altri ancora.

William Shakespeare ha prodotto ventisette opere nel decennio 1592-1602, un ritmo, a detta della critica, «straordinario» se si considera la qualità che si riflette nell’anima dei suoi personaggi. Harold Bloom, autore de Il canone Occidentale e Il genio, nonché uno dei più influenti e irriverenti critici letterari sul piano internazionale, nel suo Shakespeare: The Invention of Human, ha affermato, servendosi di puntuali argomentazioni ‒ più o meno condivisibili ‒, che il mistero di Shakespeare «non è la composizione di tre tragedie in sessanta settimane, ma che le tre figure siano proprio Lear, Macbeth, Antonio e Cleopatra». Bloom, infatti, sostiene che il drammaturgo inglese ci ha insegnato come e cosa percepiamo proprio grazie alla complessità delle immagini «dell’uomo che ha inventato», un’espressione che si serve dell’accezione latina di invenire, cioè trovare: «Intendo la parola come processo euristico, attinente alla scoperta del linguaggio. […] Questa è l’accezione del termine in retorica, e io lo uso in questo modo, intendendo con invenzione la scoperta dell’uomo tramite l’esercizio del linguaggio e del pensiero.Tutto ciò di cui parla Shakespeare è sempre esistito, infatti, ma se non ce l’avesse mostrato sotto una certa luce, forse non l’avremmo mai visto o riconosciuto».

Un personaggio, quello che Shakespeare costruisce, che non può definirsi solo letterario o drammatico. Il suo effetto complessivo sulla cultura, sostiene Bloom, è incalcolabile. Nessuno, prima del genio, ci fornisce una presentazione di figure umane che parlano ad alta voce, sia con il proprio sé sia con l’Altro, riflettendo su ciò che hanno espresso. Non accade nella Bibbia, né in Omero, né in Euripide e nemmeno in Dante. Prima di Amleto, i personaggi sono stati incapaci di cambiare se stessi. Con Shakespeare, la pratica conosciuta come self-overhearing ‒ forse la strada maestra verso l’individualismo ‒ mette in scena un inedito e intimo soliloquio, «l’ormai dominante, anche se più malinconica, lezione della poesia: parlare con noi stessi». Un grande mutamento di personalità che non può che derivare da una profonda esperienza emotiva. In particolare, il mito di Amleto, dopo quello edipico, racchiude in toto le incertezze della tarda modernità. In virtù di un comportamento morale dettato da un oscuro ricordo di una passione risalente a un «senso di colpa inconscio», la figura shakespeariana appare plasmata da materiali organici già presenti in natura, quali Es ed Io: «Amleto non soffriva del complesso di Edipo, ma Freud soffriva del complesso di Amleto, e forse la psicanalisi è un complesso di Shakespeare».

Il suo miracolo consiste nell’aver saputo dare, insieme a Montaigne e Cervantes, nuova enfasi alla rappresentazione del carattere, a quella discesa verso l’irrazionale e le «forze madri» che rappresentano i simboli del nostro essere moderno. «Ma io ho qui dentro qualcosa ch’è al di là d’ogni mostra» pronuncia Amleto nell’Atto I. L’opera del genio del Bardo, nella sua ricerca e creazione dell’uomo, rivela, come sostiene anche Oscar Wilde, «tutta l’oscurità che appartiene alla vita». Ecco la modernità. Una riformulazione continua del sé.

Beatrice Cristalli

Beatrice Cristalli nasce nel 1992 a Piacenza. Laureata in Lettere con una tesi in Critica leopardiana presso l’Università degli Studi di Milano, prosegue la carriera accademica frequentando il biennio specialistico. Il suo blog è stato inserito nello Spotlight “scrittori” sul portale Tumblr. Attualmente è impegnata in un progetto accademico del Seminario di Filosofia della Letteratura presso l’Università degli Studi di Milano. Scrive per Cultora da gennaio 2016.