Uno scrittore dipende, in fondo, dai suoi lettori. Parola di Saramago

Raymond Carver lo chiamava “stile” e appiccicava il termine su un concetto vago e preciso al contempo, oscuro o adamantino a seconda di chi ne scruti le declinazioni. Non lo si può afferrare se si insiste esclusivamente sulla forma, i calligrafi del discorso breve, sintetico, preconfezionato e ipercommestibile rischiano di risultare inadatti all’impresa. Piuttosto, il romanziere statunitense reputava essenziale al mestiere di scrivere, la ricerca di una voce, di un’identità nel linguaggio, nello sguardo personale. “Solo un autore che abbia una maniera particolare di guardare le cose e riesca a darle corpo, durerà un bel pezzo”, sentenziava.

Analogamente, Gianni Scalia insiste, con acutezza, sull’invenzione letteraria, non come professione o “folgorazione” illuminante praticata da agenti dell’odierno “talento seriale comprato al mercato delle lettere”, ma sull’unica virtù che conti davvero quando si tratti di saper tenere la penna in mano, quella d’essere “inventori, non della scrittura, ma del pensiero, delle idee”. Questo è il discrimine che separa l’autore dal venditore di prose”. L’intendere sarebbe dunque il senso più profondo dello scrivere. Ma su quale esperienza viva deve affondare radici quel pensare, perché i concetti che esprime non appaiano muti e sappiano rafforzarsi nella rappresentazione artistica?Alla questione sembra poter rispondere un’antologia di riflessioni e note commissionate a Josè Saramago da due testate di Lisbona, A Capital’ e il Jornal do Fundaò e raccolte nel testo Di questo mondo e degli altri.

Il libro, la cui prima edizione risale ad alcuni decenni fa ed ha conosciuto un numero elevato di ristampe, presenta scene fantastiche, cronache, spunti ritagliati su questa gustosa e involontaria esposizione di poetica: “non mi ritengo uno spirito forte, ma non sono neppure di quelle inquiete persone sensibili a presagi, divinazioni, brezze segrete, che vivono costantemente occupate nella decifrazione di messaggi di questo e l’altro mondo, complicando con ciò la propria vita e macinando la pazienza altrui. Tuttavia si danno alle volte dei casi che dicono come la vita non sia affatto semplice e le sue strade siano così disseminate di deviazioni e trabocchetti da stupirci che non ci si perda in essa a ogni passo”. La facoltà di trasporre l’ordinario nel dominio della fantasia ha avuto molteplici interpreti accomunati dal tentativo di riqualificare l’esperienza degli uomini e conferirle senso, sottraendola al suo aspetto di neutra concatenazione di accadimenti e riscattandola dal caso insignificante. Eppure l’illusione deve all’aleatorio la sua materia informe e la consuetudine di fatti imprevedibili squaderna un campionario di voci contraddittorie in procinto d’essere accentate dai provvisori significati della letteratura come monete d’oro recuperate dal fango. “Il caso è strano ma a pensarci bene non è più strano delle piccole cose che ci accadono ogni giorno”.

E’ l’incipit di una delle narrazioni contenute in questo testo. Vi si esprime la meraviglia di un uomo, capitato in una spiaggia gremita e consacrata al turismo di massa, per l’inusuale incontro con uno scimpanzé e l’identico stupore per l’improvviso deserto che invade, di colpo, quel lido, scenario surreale e perfetto a introdurre la bizzarria dell’inaspettato avventore. Il primate e l’umano si scrutano dapprima con diffidenza, quindi occasionano un dibattito nel quale la scimmia può, ovviamente, solo annuire. Ciononostante, basta una presenza animale perché il tono della singolare conversazione tra questi due eterogenei esseri si faccia confidenziale e il racconto del più evoluto si scopra particolareggiato, fitto d’informazioni sulla sua controversa specie. Tutto accade mentre la folla torna a punteggiare il panorama marittimo e il personaggio meno irsuto si dice incredulo per la scomparsa inattesa di quella compagnia intermittente. Lo sconcerto si mescola al dubbio sulla veridicità del fatto. Le perplessità si perdono nello sbiadire di una scritta inesperta che segna la battigia: “Sarebbe questo essere un uomo?”. Quel quesito di verità ha il sapore d’un’assenza improvvisa, colta dal protagonista di questa novella, ormai orfano del suo pulcioso uditore e dell’episodica e gustosa condivisione tra conversatori di fortuna, atta a far nascere e morire storie. In questa dolce esaltazione dell’annusarsi e studiarsi reciproco di due interlocutori cosi dissimili eppure così vogliosi di conoscersi, sembra ravvisabile la cifra di un motivo etico ed estetico che percorre l’intera raccolta firmata dal celebre premio Nobel.

L’opera somiglia, infatti, a un resoconto del quotidiano, un’ironica epica del presente, uno zibaldone di allucinazioni e verosimiglianze rese luccicanti dalla vitalità e la naturalezza della parola scambiata, interrogante e priva di concessioni alle involuzioni narcisistiche e meta-narrative di certa autoreferenzialità ostentatamente postmoderna, apprezzata da eccentrici egolatri, fanatici del monologo interiore e frenetici sperimentatori della propria privata e compiaciuta perfomance da tastiera. La coralità d’ogni esperienza, la tragica, comica o grottesca varietà di prospettive da saggiare e interpretare è irriducibilmente dialettica, non nasce ricalcando presunte intuizioni geniali, non corrisponde al parto d’uno spirito eletto, non è adeguabile al palcoscenico delle opinioni da esibizione, ma scaturisce dal crocicchio del quotidiano, in quella fatale socialità che è grembo d’ogni vicenda e si snoda tra memoria e attesa.

Da quel lato, nulla appare più degno di pagine da immaginare della comune e faticosa coabitazione nel globo terrestre. In questa accezione, l’arrotino, il mare portoghese, la nebbia del mattino, assumono, attraverso lo scrittore lusitano, la grazia e la dignità d’avventure memorabili perché impresse nei giorni di chi le (con)vive e non sradicabili dal paesaggio spirituale di una storia assieme personale e collettiva. Ad essere “letterario”è, in fondo, soltanto il nostro bisogno di comunicarci a qualcuno, contro ogni rimozione coatta della nostra e dell’altrui complessità. Questa natura politica dell’arte della scrittura enuclea ciò che Andrè Malraux, narratore ed ex ministro francese, definiva “la difficoltà di dirsi uomini”, ovvero la coscienza di dover “approfondire, nelle arti e nella vita, “l’appartenenza ai destini dei propri simili” per accorgersi che “comunione e differenza sono indissolubilmente fuse, nutrono entrambe ciò per cui un essere umano vive, ama, pensa, si concepisce.” Senza dubbio l’autore di Cecità, avrebbe sottoscritto ogni singola parola. Infatti, nelle considerazioni che concludono il testo, si dice piacevolmente costretto, perché il suo lavoro possa essere preso sul serio, a un’ammissione. Una dichiarazione di dipendenza dal lettore.

Redazione

Cultora è un magazine online dedicato al mondo della cultura in generale. Uno spazio nuovo e dinamico all’interno del quale è possibile trovare notizie sempre aggiornate su libri e letteratura, musica, cinema, media e nuove tecnologie. Sono inoltre parte integrante del portale numerosi spazi dedicati a blog curati da giornalisti, addetti ai lavori, opinion leader che offrono le loro personali opinioni e esaustivi approfondimenti riguardo i temi più caldi del mondo della cultura.