Se (D)Io Vuole al Teatro Due: trarsi dal buio

C’è un angolo segreto a Roma, nascosto tra Piazza di Spagna e Via del Tritone. Un giardino della cultura.
Si parla del Teatro Due di Roma. A calcarne il palco è stavolta un gruppi di giovanissimi, con uno spettacolo liberamente ispirato a “Tre Sorelle” di Cechov, allestito dal 28 al 29 gennaio.
Il titolo è “Se (D)Io Vuole”, dalla penna di Mariasilvia Greco, diretto ed interpretato da Alessandro Cosentini, Mariasilvia Geco, Paola Senatore, Giuliana Vigogna, musiche originali di Alessandro Cosentini.
Le vicende delle sorelle russe, bloccate nella soffocante realtà della provincia, sono trasportate in una dimensione onirica, rapportata al presente. È una morsa individuale a trattenere le giovani protagoniste dalla metaforica partenza per Mosca. Un fuga dalla meccanicità di giorni occlusi nell’accumularsi di non detti logoranti; passioni negate al cuore, pronte a caricare gesti dall’esplosione repentina. Tutto da confrontarsi con l’ingresso destabilizzante dell’affascinante Versinin.
Lo spettacolo è il primo esordio del gruppo sulle scene.

La voce è l’elemento che risalta nel complesso. Non raggiunge quelle punte d’esperienza e sensualità narrativa, come le avevamo trovate ne Il Caso Braibanti. Tuttavia, è ben impostata, con il pregio di saper riempire la platea senza perdere di godibilità, né tanto meno espressività.
Eppure, lei sola non basta. I movimenti devono assurgere al ruolo di narratori, al pari della voce, nel momento in cui si dà volontà di voler interrompere la staticità iniziale. Qui sta la grande pecca. Sebbene la coreografia ambiziosa sappia assumere le qualità di una danza rituale, di invasate ad un baccanale, manca di ritmo.
Se presi singolarmente, gli attori fanno il loro lavoro. Ma tra di loro, le relazioni fra i corpi non convincono.
Mancano di forza espressiva, di immedesimazione. Sono separate da un baratro, che rasenta l’indifferenza, ben oltre gli intenti cechoviani. Tempi morti, che non possono esser giustificati da scelte di regia, o dalle necessità del testo. Se teatrali fossero stati, per quanto fisicamente vuoti, si sarebbero comunque caricati di un vissuto. Così, la fluidità del tempo si perde, i dialoghi restano isole che rompono la finzione scenica, né generano il suo mondo dal sipario scarlatto.
È un errore da cui non sono salvi neanche i grandi, perciò non deve scoraggiare.
Quell’altra dimensione, che si palesa come spettro della coscienza dello spettatore, va prodotta sulla scena. L’elemento meta teatrale, deve avere il compito di sconvolgere, minacciando di proiettare fantasmi da specchio nel fragile mondo di chi assiste. Un’invasione psicologica. Come d’altronde, avevamo visto accadere in Fäk Fek Fik, ma che in questo caso non si verifica.

Nonostante gli incidenti di percorso, si salva il proposito dello spettacolo, in esso racchiuso. Una volontà di sbocciare, di interrompere, di gridare. Qualcosa si genera. Ancora una volta, il protagonista è la voce, assorbita nel fluidificarsi in canzone. Melodioso canto moderno, ora femminile, ora maschile, duraturo, accennato, è simbolo di una vita che cerca di trarsi dal buio.
Una suggestione concettuale da continuare ad approfondire.

Gabriele Di Donfrancesco
@GabriDDC

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