Architettura e Musica, un intreccio antichissimo

L’idea che accomuna musica e architettura è antica almeno quanto il mondo classico: i Greci trasferirono in architettura i rapporti matematici e le proporzioni che già avevano ravvisato proprio nella musica, e il senso della proporzione (proporzione appunto secondo i dettami classici) pervade e influenza fortemente ancora, in Occidente e oggi non più soltanto in Occidente, il nostro senso del bello, sicché il legame tra proporzioni musicali e architettoniche si è traghettato anche nella comune percezione, sino alla contemporaneità: non è affatto un caso se nel Rinascimento Leon Battista Alberti, una delle figure più straordinarie e poliedriche di quell’epoca fortunata, raccomandava agli architetti di studiare musica, in quanto in essa vi si potevano ritrovare le stesse proporzioni; e nella Germania ottocentesca si parlava dell’architettura come di una sorta di ‘musica in forma solida’, di ‘musica pietrificata’ (Goethe parlava di ‘musica congelata’). insomma fatta questa breve premessa non ci si stupirà se si è soliti accostare certi compositori ad architetti: caso più celebre in tal senso è rappresentato da J.S. Bach, creatore di straordinarie cattedrali sonore, ma anche da Beethoven, un Beethoven architetto della musica che ha espresso un’architettura si potrebbe dire in movimento: se prendiamo in esame le 32 sonate per pianoforte, semplificando potremmo dire che egli passa dalla linearità neoclassica delle sonate giovanili, ancora legate alla forma sonata di marca haydiniana, mozartiana ecc., alle ben più ardite e complesse architetture delle ultime sonate, che sfidano e allargano la forma della forma sonata.

Ecco, la forma: il rapporto tra architettura e musica è un rapporto di numeri e di forma; la forma rappresenta per così dire un concetto cardine, fondamentale tanto nella musica quanto nell’architettura e nelle altre arti: la forma sonata (strumento attraverso il quale siamo abituati ad ascoltare non solo sonate ma anche quartetti, concerti e sinfonie) esito splendidamente settecentesco, è forse ciò che più può essere considerato architettonicamente ineccepibile in musica. La sua perfezione coincide con la maturazione del sistema tonale: dopo l’epoca classica si avrà un sempre più deciso allargamento della struttura, ciò che si accompagnerà a un progressivo allargamento della tonalità, sino alla rivoluzione apportata o completata da Schönberg in cui la dissoluzione (o estremo espandersi) della tonalità coincide appunto, e non casualmente, con il disfacimento della forma; ecco forse perché a volte si fa fatica ad ascoltare e a trarre piacere dalla musica di Schönberg e di altri autori contemporanei (pur essendo la scuola di Vienna in realtà di circa un secolo fa, ancora si continua a gettarla nel calderone della musica contemporanea…): perché non vi ravvisiamo più i rapporti formali tipici ad esempio proprio della forma sonata degli Haydn o dei Mozart, che sono poi quei rapporti propri ancora dell’architettura classica e che ancora oggi plasmano il nostro senso del bello (musicale, formale, architettonico); insomma in questa fase storica vanno a mancare i rapporti geometrici, quelle rassicuranti proporzioni, la tensione e la risoluzione diremmo in musica; e allora la difficoltà che il visitatore patisce davanti a una certa pittura del primo ‘900 (in questi mesi a Torino c’è la mostra di Mirò) è la stessa difficoltà dell’ascoltatore smarrito di fronte ai Klavierstücke di Schönberg. La ragione a monte è la medesima.

Queste problematiche non sono poi esclusive delle sole avanguardie, ma investono anche periodi in parte forse insospettabili, come ad esempio l’epoca barocca, come testimonia la vicenda che vede protagonista l’enciclopedista francese Charles de Brosses, il quale deplorando la Roma di Bernini e Borromini parlerà in senso spregiativo proprio di ‘barocco’ (e pare che per la prima volta il termine venisse utilizzato in tal senso) richiamandosi a quelle perle maltagliate e dalla forma irregolare che i mercanti di perle portoghesi chiamavano appunto barocche. Mutatis mutandis il De Brosses doveva avere in ultima analisi provato lo stesso senso di smarrimento che noi oggi potremmo provare, ad esempio, davanti a un quadro del già citato Mirò. La questione è tra le più affascinanti, ma (si capisce) veramente complicata e qui, ovviamente, appena lambita.

Marco Testa

Cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storici e archivistici parallelamente a quelli musicali. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio di Torino e docente presso l’Accademia Corale “Stefano Tempia”, collabora con festival e istituti di ricerca. Autore di saggi e articoli, lavora presso l’Archivio di Stato di Torino ed è critico musicale di “Musica – rivista di cultura musicale e discografica” e de “Il Corriere Musicale”.