Scrivere la propria vita o lasciare che si scriva da sola? Quando Goethe ci mette spalle al muro.

Negli ultimi scampoli di 2014 ho avuto modo di partecipare quasi per caso ad una tavola rotonda con studenti di liceo classico e scientifico. Si parlava di editoria vista dal punto di vista degli aspiranti scrittori e di come si può arrivare a scrivere un libro posto che in Italia esiste la sindrome dello scrittore.

Tutti scrivono, hanno qualcosa da dire e credono di essere i nuovi geni della letteratura: non si ha la dimensione esatta del fenomeno finché non si vedono i numeri dei manoscritti presentati ai concorsi o si chiede qualche numero ad un editore.
Insomma questa tavola rotonda aveva senso di esistere ed un tema interessante è uscito.
Esistono modelli a cui ispirarsi? A quali basi rifarci? Modelli classici e/o moderni?
Quando ho risposto sui classici ho dovuto citare onestamente il mio libro preferito.
Sedetevi. Si tratta de “I dolori del giovane Werther” di Goethe.
Subito sono stato attaccato. Sono molti i detrattori dell’opera che viene considerata dai più un mattonazzo esistenziale, un mapazzone letterario che ha portato molti al suicidio all’epoca in cui uscì. Un libro che non dovrebbe essere letto alle superiori.
A prescindere dal fatto che lo stile “diario” con cui è stato steso è quello più imitato casualmente proverò a spiegare le ragioni che stanno dietro la mia difesa a spada tratta di questo libro.
Partirò da una domanda: cosa deve fare un libro per essere considerato un buon libro?
Per me deve smuovere qualcosa dentro nel bene e nel male. Deve destare dal torpore in cui la nostra vita ci catapulta troppo spesso tra scuola, lavoro, amici, famiglia, hobbies e farci interrogare o riflettere. Se non lo fa non è un buon libro ma un esercizio di stile.
Perché un buon libro deve essere sociale. Si, puoi scrivere anche per te stesso, ma non può essere solo questo. Uno scrittore (e io non credo mi vorrò mai fregiare di questo titolo) è prima di tutto un osservatore del mondo circostante che rielabora nella sua mente, quindi gli altri sono l’oggetto e il fine della sua ricerca.
Goethe in questo centra perfettamente il compito. Il suicidio viene giustificato a tal punto da creare una netta presa di posizione nel lettore, che o lo ama o lo odia. In ogni caso fa riflettere.
E che lo vogliate o meno, i mass media non ne parlano, ma è una delle cause maggiori di morte nei paesi sviluppati, perché meno contatti umani veri hai, più perdi te stesso.
E allora mi si dica: siete come uno dei protagonisti che giudica il gesto come un segno di debolezza?
Goethe si infuria tramite Werther con voi. Non perché sbagliate ma perché state dando un giudizio troppo affrettato. L’autore pone solo un dubbio atavico: si può parlare di ciò che non si conosce?
Si, è possibile, a patto di farlo in punta di piedi e non come caterpillar.
Sapete voi cosa passa nella testa di chi decide di farla finita? Avete mai messo davvero tutta la vostra vita in una cosa e indipendentemente dalle vostre forze avete perso tutto?
Se non lo avete vissuto raffreddate i vostri spiriti. Se invece vi è successo e siete stati forti, allora dovreste avere compassione per chi non è stato altrettanto forte perché avete vissuto un’esperienza simile e sapete quanto sia terribile.
Che poi, forte. Ecco, su questo ci interroga il libro. Sapete che ci vuole coraggio per farla finita? Perché vi stupireste di quanti abbiano pensato di farla finita e abbiano desistito non per aver trovato una soluzione ma solo per la paura di non morire ma restare menomati a vita. Che è un po’ come dire che ci vuole coraggio per farla finita.
Il libro ci dice con una disarmante semplicità tra le righe che siamo fragili, tutti. Sia chi compie il gesto che chi lo condanna perché non lo capisce. Perché ciò che non conosciamo e capiamo ci fa paura.
La riprova? La reazione della gente di fronte a qualcuno che confessa che ha pensato di farla finita.
Non lo considera più come prima spesso, ma come un qualcuno che ha avuto e potrebbe avere qualche disturbo, qualche deficit perché non è normale.
Goethe ce lo dice. Siete normali qualsiasi cosa voi pensiate, siete normali e identici, siete fragili, piccole creature che provano a scrivere le pagine del loro libro personale. Ogni vita ha il suo valore e non mi si accusi di qualunquismo.
Goethe non merita di essere visto per meno grande di quello che è. Perché parla all’animo di ognuno di noi, solo che arriva diretto al punto, senza mezzi termini e può essere frainteso perché va a scoperchiare uno dei mali peggiori dei nostri tempi, che è il male di vivere.
Però lasciatemelo dire, una vita passata senza interrogarsi sui mali peggiori non vi permetterà mai di raggiungere quello per cui siete destinati. Perché tutte le emozioni vanno vissute e lasciate fluire. Alcune vanno poi frenate per non farsi schiacciare, perché quello che va chiarito è che noi viviamo di emozioni ma esse non ci devono guidare. Siamo noi gli artefici del nostro destino. Se saprete riconoscere esattamente le emozioni che provate in ogni singolo momento allora saprete esattamente cosa provano anche gli altri, saprete spiegare ciò che avete dentro.
E se volete scrivere, dovete arrivare dentro, a voi stessi e agli altri, sciogliere quei muri che ci proteggono ma fanno anche sentire soli in mezzo a tanti.
Si, buttare giù qualche riga o pagina è facile, ma scrivere è un dono e una responsabilità enorme.
Verba volant, scripta manent dicevano i romani. Io aggiungo che non solo rimangono ma feriscono anche come lame, perché una parola di troppo può sfuggire, un messaggio scritto no.
E in un epoca di cellulari e social network sapete bene cosa intendo.
Questo è Goethe, da un tema si estende a tutta la vita. Potete continuare ad odiarlo, a me basta che non vi lasci indifferente, così saprete che siete vivi.
E allora sorridete, perché nessuno ha chiesto di vivere ma tutti chiediamo di vivere bene.

Alessandro Montanelli

Alessandro Montanelli

Trent’anni, di giorno libero professionista nel settore bancario e insegnante a domicilio per ragazzi dislessici, di notte ballerino e pr. Una vita fatta di palestra, tatuaggi, musica a tutto volume a condire i mille incontri che tra università e locali accadono ogni giorno e che offrono sempre grandi riflessioni. In una parola: eclettico. Perché gli stereotipi non piacciono a nessuno, ma tutto può servire per crescere e merita di essere fissato nero su bianco. Basta saper osservare.