Mundus Furiosus: l’Europa e la Ragione dei Popoli. La Civiltà e la Vita Vera

Mundus furiosus: geniale e sublime evocazione demonica; intensa descrizione degli orrori e della grandezza di un mondo iper-globalizzato; grandiosa visione onirica di un’irreale realtà postmoderna, contrassegnata dalla totale liquefazione degli antichi valori di trascendenza; da un’indicibile furia mercatista che dissolve le antiche nazione, e nella voracità belluina della «finanza sovrana», dissolve il secolare legame territorio-potere.

Giulio Tremonti, nel suo lucido e irriverente e straordinario saggio, traccia un oscuro e inquietante affresco delle cause inerenti la crisi della legittimazione democratica in Occidente. Opera in struggente armonia e coerenza intellettuale con quelle che l’hanno preceduta: in primo luogo Rischi fatali, impressionante saggio pubblicato nel 2005, nel quale una sgomentevole vocazione divinatoria emergeva in tutta la sua potenza. Erano in pochi, a quell’altezza di tempo, a resistere al fascino e alla vitalità demonica dell’erotismo suscitato dalla teologia mercatista. Tremonti, scandaglia quel sottosuolo ideologico e ne mette in luce errori e nefandezze economiche; ne denuda l’indicibile arroganza delle schiere tecnocratiche: «sonnambuli», come egli stesso li definisce, di quell’incantevole babele priva di fondamenta ¬– «costruita dall’alto verso il basso» – che è la dis-Unione europea: «questa» Europa che conosciamo oggi. Temi già mirabilmente evocati nel più recente Bugie e verità (e con quale immaginifica prescienza!): l’insensata degenerazione della finanza; l’illusione suicida insita nella convinzione che cedendo sovranità monetaria e (in parte?) fiscale – di fatto abdicando alle secolari funzioni dello Stato: almeno dal Vestfalia e Augusta in poi –, venisse per paradosso ad espandersi il potere dei governi nazionali in virtù di meccanismi decisionali orizzontali (il metodo intergovernativo) fra stati-nazione.

Ciò che n’è emerso è invece – come in un incubo distopico – un’Europa della complessità, della giuridificazione ossessiva e fanatica; l’Europa bourgeois della Zivilisation, ebbra di estetizzante e insopportabile pathos progressista da paccottiglia; contraltare ideale alla nobile Kultur insieme universalistica, cosmopolitica e «disperatamente tedesca». Qui Tremonti, come già Thomas Mann (a lui caro) nelle sue Considerazioni di un impolitico, percepisce la radicale debolezza, l’ottuso dogma, di chi si rende schiavo di quella che Claudio Magris ha definito in un suo meraviglioso saggio la «Medusa della modernità». L’apoditticità di un aberrante assioma culturale che avrebbe voluto imporre il radicale rivolgimento di una civiltà plurisecolare – quella Europea – in meno di vent’anni: dalla creazione dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), nel 1994, sino all’ingresso in quest’ultima della Cina. La crisi, squisitamente finanziaria in origine, economica culturale e sociale poi, pone in tutta sua brutalità un problema esistenziale per l’Occidente e l’Europa: quel modello di sviluppo, fondato sulla mefistofelica illusione della leva finanziaria, sulla capacità in eccesso, sui disavanzi finanziati con deliziosa generosità dal risparmio dei paesi emergenti; sulla nostra giuliva e incoercibile volontà di consumo. Quel modello, come Tremonti già ammoniva nel 1992, avrebbe inesorabilmente riprodotto l’ominoso «fantasma della povertà».

Senonché, a differenza di Mann, a Tremonti non occorre alcuna conversione, alcuna abiura del suo credo. A differenza del grande scrittore, sino alla Grande guerra intimamente persuaso dell’immanente superiorità dell’autoritarismo germanico, l’autore di Mundus furiosus rimane sempre coerente alla sua fede nell’umanesimo democratico; a quella humanitas così indissolubilmente connessa alla dimensione cristiana (anzi: profondamente cattolica) dell’esistenza; così teneramente attaccato al sentimento della patria (che come egli stesso ricorda, non senza velata nostalgia, deriva da pater); così lontano dall’ossessiva, materialistica e demonica vanità post-moderna; e insieme, così pregno di quell’equanime epicità che non è se non autenticamente e storicamente europea. «Mai ignorare la potenza immanente del popolo» avverte Tremonti, «e la superiorità del popolo sul Principe (oggi il Leviatano) … »; e soggiunge poi a più forte ragione: «indicazione su cui sinistramente dal passato convergono tanto Spinoza quanto Machiavelli». È l’eterno magistero dell’antica scienza politica: Tremonti, come Settembrini ¬¬– l’indimenticabile pedagogo umanista della Montagna incantata ¬–, ci redarguisce con magnanima equanimità a non derubricare gli istinti e le sofferenze dei popoli; a non sottovalutare l’indicibile abisso di sentimenti scavato tra essi e le élite, a poco a poco sempre più profondo, sempre più irrimediabilmente insondabile.

È la «ragione dei popoli»: Tremonti, rilutta a concepire principi economici e strutture regolative della finanza avulse dall’etica, dalla funzione sociale del capitale e delle crescita. In ciò non si può prescindere dal ruolo dello Stato nazionale, dal principio di autorità in esso intimamente partecipe. È in seno alla civiltà europea, alla sua vasta e antica ecumene plurinazionale, che va ricercata quella formidabile apertura e comprensione a ciò che è radicalmente «altro»; e insieme la straordinaria forza conservatrice di una tradizione millenaria che con i suoi eterni valori di trascendenza pone un insuperabile argine verso l’apparente degenerazione di un mondo tentacolare concepito dalle rovine dell’uniformità postmoderna. È questa la meravigliosa speranza di Tremonti: speranza che vince la schiavitù della paura.

Carlo Torino

Redazione

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