Martin Luther King, quando il mito si fa uomo: Selma

“Cosa succede quando un uomo decide che quando è troppo è troppo?” Nel 1965 dall’Alabama, nel profondo sud degli Stati Uniti, il popolo afroamericano si mise in marcia verso la Casa Bianca. Per rivendicare il diritto di voto, già previsto dalla legge, ma per consuetudine ignorato. Erano guidati dal reverendo Martin Luther King.

Ava DuVernay ha scelto di risfogliare le pagine della storia per raccontare la battaglia per i diritti civili dei neri con la lucidità del documentario e la profondità del racconto. La regista afroamericana premiata al Sundance Film festival del 2012 per “Middle of Nowhere”, offre questa volta il ritratto di una delle figure più complesse e meno documentate cinematograficamente del passato americano.

Oggi di lui non restano che i ricordi dei libri di scuola. Martin Luther King è diventato un francobollo, una scuola elementare, una strada dei quartieri neri. L’attivista pacifista e leader dei diritti civili è stato ridotto a quattro parole: “I have a dream”. Tutti ricordano che credeva nella pace e che dedicò la sua vita alla lotta per l’uguaglianza e la libertà dei neri. Pochi però, sanno che aveva 4 figli, che morì a 39 anni e non aveva intenzione di essere quel tipo di attivista. DuVernay allora ci fa sentire la voce di King nel quotidiano, non solo quella dei comizi, ci fa vedere un marito cercare conforto nello sguardo della moglie, ci mostra infine, l’uomo in balia di dubbi, angosce e paure. Il mito si fa uomo. DuVernay ha demolito il gigante di marmo per renderci una persona reale, fatto della stessa stoffa degli uomini.

E David Oyelowo, già protagonista di “Middle of Nowhere”, diventa il volto umano di un’idea, di una leggenda, della gloria. Oyelowo segue un processo di totale identificazione con il dottor King, che tocca l’apice nei discorsi pubblici che iniziano in tono sommesso per poi gonfiarsi di una travolgente potenza retorica, culminando sui toni da predicatore protestante.

“ Cercare di ritrarre un uomo ordinario che ha fatto grandi cose era il nostro obiettivo in ogni singolo momento, in ogni singola riga di sceneggiatura”, racconta DuVernay. Un normale predicatore di Atlanta che si ritrovò coinvolto nel movimento quando andò in Alabama. “I am one of many”, “sono uno dei tanti”, non si stancava di ripetere in ogni suo discorso l’uomo che è diventato leader mondiale. Il singolo risplende come parte della collettività in perfetta antitesi con i leader contemporanei. Un servizio alla sua eredità, David Oyelowo definisce così la sua interpretazione. Quasi un dovere morale di ridare finalmente vita a un Martin Luther King il più possibile autentico.

A far da contraltare a King, fulcro dell’azione, è Lyndon Johnson, noto come il “presidente dei diritti civili”, ma più spesso ricordato come emblema dell’inerzia e della procrastinazione. “Signor Presidente, vuole passare alla storia come quello del ‘aspetta, vediamo domani’? King fa breccia nell’ipocrisia conservatrice bianca che teme il cambiamento quasi quanto il proprio fallimento.

Ma gli anni di vessazioni, umiliazioni e discriminazioni macchiate del sangue cupo dell’ingiustizia richiedono l’azione immediata. “È inaccettabile che loro usino il loro potere per metterci a tacere, ora basta”, gridava alla folla. È il potere della gente che viene invocato.

“ Selma” restituisce alla politica il suo significato superiore. La storia di King è una lezione sulla nobiltà della politica intesa come ricerca del bene comune. Le sue scelte sono dettate da un fine ultimo elevato, anche a costo di compiere a volte gesti impopolari ma che si rivelano poi, di una lungimiranza inconfutabile. La sua fermezza nel portare avanti la battaglia per i fratelli neri è parallela alla determinazione a non sacrificare vite innocenti, in vista del successo immediato e dell’opportunità politica. Con lo sguardo fisso alla meta finale, King emerge come leader illuminato in forte contrasto con i politicanti che lo circondano.

Dunque, Ava DuVernay sceglie quella storica marcia da Selma a Washington come frammento di gloria della storia americana, in cui la protesta per i diritti civili emerge da un mosaico di voci e punti di vista che mettono a confronto la storia intima delle persone con la grande storia. È però, attraverso lo sguardo della regista che “Selma” diventa pellicola memorabile che combina resoconto documentario, con autentici spezzoni finali della marcia su Washington del ’63, e racconto intimo che penetra al cuore delle emozioni. DuVernay incede, senza aver paura della lentezza, nel buio della casa addormentata, apre le porte chiuse, indaga negli sguardi muti. La fragile e complessa umanità dei personaggi emerge a rilievo dai silenzi, dai bisbigli, dalle parole non dette. O dette a fil di voce: confessioni sussurrate. A volte scritte, per raggirare le cimici dell’FBI.

Le parole evocano, le immagini seducono. Forte di una carica sensuale, la fotografia di Bradford Young affascina lo spettatore riducendo ogni distanza critica. Condotto attraverso un racconto dall’impianto piuttosto classico, lo spettatore affonda in crepe oniriche, a volte grottesche. Fino a perdersi nella sequenza finale in cui bianchi e neri si confondono in una marcia a tutto campo in stile western: dopo due tentativi conclusi in un bagno di sangue, la terza marcia diventa la coronazione di un trionfo che acquista toni epici sulle note di “Glory” di John Legend e Common, vincitori del premio Oscar per la miglior canzone.

Da “Lincoln” a “Django”, senza dimenticare “12 anni schiavo”, “Selma” è l’ultimo passo della strada verso la libertà, in un excursus sull’eredità dei diritti civili che rilegge ricordi drammatici rimasti troppo a lungo sconosciuti al grande pubblico americano. E DuVernay sarebbe stata la prima regista afroamericana a vincere una nomination agli Oscar per miglior regia, ma “la giuria in maggioranza composta da uomini bianchi tra i 50 e i 60 anni”- spiega DuVernay- ha già concesso due nomination, miglior film e miglior canzone. Ora che i neri possono eleggere i propri rappresentanti e sedersi a tavola affianco ai bianchi, vien da guardare indietro, a quanta strada abbiamo fatto da Selma. Ma quanto dista ancora Washington?

Redazione

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