La riforma Rai ora è legge: cosa cambia e cosa dovrebbe cambiare

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A viale Mazzini il cavallo morente di Francesco Messina, che simboleggia le comunicazioni umane che soccombono di fronte alle nuove tecnologie, sembra dover stramazzare al suolo con ultimo nitrito da un momento all’altro. Mai come negli ultimi anni la Rai ha goduto di così poca popolarità e fiducia da parte dei cittadini italiani.
Dopo la riforma Gasparri, ormai datata dieci anni fa, il governo Renzi ha deciso di intervenire sulla televisione pubblica con un disegno di legge che dopo il disco verde della Camera ha ottenuto la fiducia del Senato nella lunga notte di votazioni del 21 Dicembre. Il ddl prevede cinque principali cambiamenti.

In sostituzione del Direttore Generale, si introduce la figura dell’amministratore delegato con ampi poteri, nominato dal C.d.A. su proposta del governo. L’A.d. nomina i dirigenti, assume, nomina e promuove i giornalisti, firma contratti fino a 10 milioni di euro. È prevista l’incompatibilità con cariche governative.

Forza Italia ha chiesto e ottenuto l’introduzione di un Presidente di garanzia, nominato dal C.d.A. con parere favorevole della commissione di vigilanza.

A cambiare sarà poi anche la composizione del C.d.A., ridotto da 9 a 7 componenti: 4 eletti da Camera e Senato, 2 dal Governo, 1 dai lavoratori Rai.

Il canone viene ridotto a 100 euro e verrà pagato nella bolletta dell’elettricità sulla prima casa.

Per quanto riguarda l’informazione è previsto un netto riordino che porterà allo snellimento delle redazioni e alla formazione di due newsrooms: in una confluiranno Tg1 e Tg2, nell’altra Tg3, TgR e Rai News 24.

La chiave di interpretazione del disegno di legge è la semplificazione dell’azienda. Il modello più volte indicato dal Governo è quello della BBC, anche se l’universo della storica emittente britannica è anni luce lontano dal nostro. La semplificazione è necessaria per scardinare il sistema della lottizzazione, prodotto dalla riforma del 1975, per la quale il controllo della Rai è passato dal Governo al Parlamento e i partiti politici si sono spartiti i canali radiotelevisivi su base elettorale.

La lottizzazione nei primi anni ha generato un grande fervore culturale dovuto alla diversificazione politica delle reti ma si è poi tradotta in corruzione e concussione e in scelte aziendali che non perseguono l’interesse del telespettatore ma quello dei partiti. In nessun Paese esiste una televisione pubblica che ha tre reti nazionali autonome alle quali si affiancano un canale di informazione h24 più 26 emittenti regionali che occupano enormi palazzi di proprietà e contano un numero spropositato di dipendenti. Come ha fatto notare Milena Gabanelli sul Corriere della Sera, la sola sede Rai di Campobasso ha 70 dipendenti. La sede più piccola della BBC, quella delle Channel Island, ne conta solo 2.

Se la lottizzazione si può dire archiviata nel senso che il termine ha assunto fino ad ora, sembra tuttavia che da ora in poi il governo possa reclamare sulla televisione pubblica molti più diritti che in passato. E questo non è un bene.

Se si vuole davvero guardare al modello BBC, allora deve essere fatto un discorso più ampio e coerente. Le reti televisive e le emittenti radiofoniche della BBC vengono finanziate esclusivamente attraverso il canone radiotelevisivo che ammonta a 185,11 euro. La BBC perciò non trasmette pubblicità. Ridurre il canone Rai è un chiaro passo verso un’ulteriore commercializzazione della televisione pubblica, processo che fino ad ora ha portato a risultati fallimentari.

Affrontate le questioni tecniche di riorganizzazione aziendale, la riforma del Governo Renzi lascia colpevolmente scoperto il nodo fondamentale della cultura, come se il cavallo fosse morente solo per gli sprechi e le inefficienze (che pure esistono) e non principalmente perché non ha più idee. Il vero problema è che in Rai, ormai da tempo e con rarissime eccezioni, manca una classe intellettuale televisiva capace di generare idee e format nuovi ed originali, in grado di fare servizio pubblico, ossia di formare il cittadino al dibattito democratico.

Francesco Frisone

Francesco Frisone

Francesco Frisone, nato nel 1994 a Roma. Frequenta la facoltà di Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Pavia, è allievo IUSS e alunno dell’Almo Collegio Borromeo. Ha frequentato la London School of Journalism nell’estate 2014 e ha lavorato per l’Ufficio del Sindaco Depaoli a Pavia nel 2015. Si interessa di media, politica e campagne elettorali.