Intervista a Tito Ghisolfi

Copertina

Lasciate che vi presenti Gianmaria Ghisolfi detto Tito: cinico rapinatore, spacciatore e strozzino. Ex maestro elementare, è stato certificato come disturbato mentale per i maltrattamenti inflitti vent’anni fa ai suoi scolari.
Sua compagna è “la Tati”, prostituta sieropositiva per tossici, squattrinati e ricconi viziosi, mentre suo socio è René Felzi, brutto da paura, piccolo e magro, con i denti marci e il naso che è un monumento.
I due si considerano “artigiani del crimine”, fermamente decisi a restare fuori dai grossi giri della criminalità organizzata. Le loro rapine in villa, tuttavia, scatenano l’ira di una banda di rumeni, ogni volta accusati dalla polizia di esserne i veri autori.
In fuga dalla malavita dell’Est e braccati dalla polizia per una serie di omicidi che non hanno commesso, Tito e René dovranno anche scoprire il misterioso personaggio che li vuole morti.
Tra prostitute fuori corso, disperati tossicomani ed extracomunitari brutalmente derubati, e tra insospettabili studenti pusher, malviventi decaduti e sensuali mogli cocainomani, le vicende narrate da Tito Ghisolfi sono una vertiginosa caduta nei tormenti più cupi dell’animo umano, dove il tragico e l’assurdo si combinano in un inesorabile grottesco.
Un romanzo senza eroi, “Il male relativo” di Stefano Caso goWare, dove le voci del male più volgare si confondono con quelle più raffinate, non meno squallide e distruttive.

Signor Ghisolfi, perché non posso chiamarla Gianmaria?

Perché è un nome da checca o da prete mancato. E un malavitoso come me non può permetterselo. Perderei di credibilità. Molto meglio Tito, più grintoso e cazzuto. Gianmaria me lo toglierei subito dalla carta d’identità e dalle palle. Se vuole farmi incazzare mi chiami ancora Gianmaria…

Quand’è che Gianmaria è morto per lasciar spazio a Tito?

Credo di essere nato Tito. Poi non so cosa sia saltato in mente a mio padre e a mia madre, con ‘sto maledetto nome. Gianmaria l’ho usato per quasi quarant’anni, più o meno finché ho giocato a fare il bravo maestro elementare. Poi i maltrattamenti ai miei scolari mi hanno fruttato un certificato di pazzo e un prepensionamento. Niente male, no? Avevo trentotto anni, un’entrata fissa ogni mese e la libertà di fingermi pazzo. Fino ai quaranta ho cazzeggiato alla grande. Ho viaggiato, mi sono ubriacato, ho scopato. Ho partecipato a risse e a pestaggi, ho imparato a menar le mani. Il tutto con la patente di matto in tasca. È stato lì che Tito ha cominciato a nascere, o a rinascere. E non sarebbe più tornato quello di una volta. A quel punto, era venuto il momento di costruirmi una nuova professione, più emozionante e redditizia di quella del maestro elementare. E così sono diventato il malavitoso che sono ora, un “artigiano” del settore, uno lontano dalle grandi organizzazioni del crimine, uno che ogni giorno per sopravvivere deve pararsi il culo con i denti.

Ritiene che Tito le si attagli meglio, perché? Qual è il suo riferimento: le ascendenze romane o il dittatore comunista jugoslavo Tito?

Nessuno dei due. Il primo era troppo generoso con i suoi sudditi e poi di nome faceva anche Vespasiano, proprio come un pisciatoio. Dal secondo ho preso il nome dopo un viaggio nella ex Jugoslavia, quando ancora non era ex. Ma solo il nome. In realtà so poco di lui e, comunque, tutto ciò che ha a che fare con la politica mi fa schifo.

Lei è stato un maestro, e ha maltrattato i suoi alunni. Se n’è pentito?

Mi sono pentito di aver perso tempo facendo il maestro, con tutti quegli stupidi mocciosi e la loro inutile sete di conoscenza.

Non ha alcun rispetto per le donne, ma per la sua… possiamo dire “compagna”? ha sofferto. Quindi è capace di amare?

E chi ha detto che ho sofferto per la mia “compagna”? Semplice compassione per una prostituta sieropositiva, a cui la vita aveva dato poche opportunità. Niente di più.

Un solitario, un sociopatico, Tito Ghisolfi, però René è suo amico, quindi anche in questo caso possiamo dire che un briciolo di umanità traspare pur attraverso la maschera brutale, non trova?

René è il compagno ideale per le mie malefatte. Anche se credo poco nell’amicizia, il mio compare è qualcosa di molto vicino a un amico. Fedele, sincero, pronto a spaccarsi in quattro per me. Sono certo che rischierebbe la pelle per salvare la mia. Io non so. I concetti di amicizia e cameratismo non mi appartengono. O forse li ho dimenticati in qualche oscura serpentina del mio cervello bacato. Cosi come l’amore e l’altruismo. Per non parlare della pietà.
Le uniche persone che conoscono la pietà sono quelle che ne hanno bisogno, scriveva Bukowski, l’unico autore che ancora leggo. E io, della pietà, non ho bisogno. Come gli animali. Perché io sono un animale. A volte una bestia. Una bestia feroce. Violenta. Non parlo della violenza fine a se stessa, volgare e gratuita. Parlo della violenza funzionale. Che esplode ogni volta che un accidente si ficca tra me e il mio obiettivo. Allora divento spietato come le belve affamate o che si difendono dal nemico. O come quelle che devono proteggere il loro territorio e il branco. Anche se io un branco da difendere non ce l’ho. Ho solo la mia pellaccia, l’unica cosa che davvero conti per me. Non temo di morire, no. O meglio, non sono come buona parte degli esseri umani che rifugge la morte col pensiero. Io, la morte, la sotterro con l’azione. Proprio come gli animali.

Lei ruba, spaccia, picchia. Pensa siano gli unici modi di rapportarsi a questa società?

Ho affrontato parecchi anni fa i concetti di Bene e di Male, e li ho rivoluzionati. E ho capito che il Bene è una tormentata conquista della buona volontà, un sacrificio che io non sono disposto ad affrontare. È la mia strategia per tenere su la testa in questa vita di merda.

Se riuscisse a sorridere, di cosa sorriderebbe?

Se lei accettasse di uscire con me stasera.

Il male si paga con il male. Lei si mostra disposto a pagare il prezzo più alto. Perché?