Da Aria Sottile al film Everest. Se la verità di Krakauer è ignobile e artefatta

Non avevo idea che, guardando Everest in Blu-Ray, mi sarei infilata nel proverbiale ginepraio. Ne ho avuto sentore solo dopo le prime ricerche in rete, spinta dalla curiosità di sapere quanto il film aderisse alla realtà.

Vuoi per le affermazioni di Simone Moro, secondo il quale il film proveniva dal resoconto sbagliato. Vuoi la deformazione professionale. Vuoi la consapevolezza che il resoconto era firmato da Krakauer, di cui avevo letto da poco “Nelle terre estreme”. Fatto sta che non ho saputo resistere e mi ci sono tuffata, in quel ginepraio.

Vent’anni di polemiche sulle quali ho cercato d’informarmi, mantenendo un atteggiamento obiettivo, e una curiosità più forte di tutte le altre: se il film, per ovvie ragioni di drammatizzazione, ricostruiva dialoghi fra due persone morte sull’Everest, senza che nessuno assistesse a quei dialoghi, cosa diceva a riguardo il libro da cui era stato tratto? Così ho deciso di leggere “Aria Sottile”.

Volevo capire se il lavoro più celebrato di Krakauer mi avrebbe fatto cambiare idea su di lui. Mi spiego: “Nelle terre estreme” è una raccolta di interviste e di estratti del diario di Chris McCandless. Un lavoro giornalistico, pubblicato sotto forma di romanzo. Non c’è lo scrittore Krakauer, c’è il giornalista Krakauer. E io volevo sapere se Krakauer fosse anche uno scrittore.

La risposta è no: non lo è. È un ottimo giornalista, ma non uno scrittore. Il che, in questo caso specifico, andava benissimo. Volevo cercare di costruirmi un’opinione personale basata sui fatti (da giornalista, a mia volta) e i resoconti giornalistici sono il presupposto migliore per un lavoro di questo tipo.

Alla fine di “Aria Sottile”, nella postfazione, Krakauer parla della querelle che da vent’anni circonda la tragedia che si consumò sull’Everest il 10 maggio del 1996. Attori principali della discussione: Jon Krakauer e Anatoli Boukreev, entrambi presenti in quell’occasione, ma purtroppo non oggi: Boukreev morì sull’Annapurna, travolto da una valanga, nell’inverno del 1997. Prima ancora di aver letto il libro di Boukreev e Gary Weston DeWalt, ho letto le critiche di Krakauer alla versione dei fatti di Boukreev. Dopodiché, riempiendo il mio Kindle di brani evidenziati e note, sono passata a “Everest 1996”.

Dopo aver letto due versioni della stessa storia, e dopo aver fatto ricerche leggendo interviste e articoli di giornale – dell’epoca e successivi – ho tratto le mie conclusioni.

Come ogni racconto, anche quello di Jon Krakauer aveva bisogno di un cattivo. Il senso di colpa del sopravvissuto, la sua stessa ammissione di aver contribuito in modo attivo alla morte di Andy Harris, e l’incapacità di reagire, restandosene in tenda quando c’era da andare a cercare e salvare i suoi stessi compagni di spedizione, l’hanno portato a dover trovare un colpevole. Molte le accuse contro Boukreev, principalmente quella di essere sceso mentre gli scalatori erano in difficoltà, in direzione della vetta, e quella di aver scalato senza ossigeno. In realtà, Boukreev aveva con sé una bombola (che offrì in seguito a chi ne aveva più bisogno di lui) e non aveva deciso a priori di non usare l’ossigeno. Valutava, esattamente come il suo capo Scott Fischer, l’opportunità di non servirsene, come del resto aveva sempre fatto. Inoltre, scendendo per andare a recuperare ossigeno e bevande calde, fondamentali per soccorrere gli scalatori in difficoltà, stava solo eseguendo le istruzioni di Fischer, che l’aveva assunto e gli aveva dato dei compiti.

Tutto il resto, incluso il resoconto dello stesso Krakauer – che ammette di aver sofferto di allucinazioni derivate dall’alta quota – sono illazioni.

Nonostante la sua esperienza di scalatore, Jon Krakauer non ha capito che non gli serviva un cattivo. Perché quel “cattivo” ce l’aveva già: la montagna. Non l’ha capito o non l’ha voluto vedere. Non credo che sia stato intenzionale, il suo attribuire a Boukreev ogni colpa. Il suo libro, come quasi tutti i suoi lavori, è una raccolta di interviste e di ricordi personali. C’è una parte introduttiva interessante, che racconta la storia delle scalate all’Everest e fornisce dettagli importanti anche per i racconti successivi. Ci sono le emozioni che mancavano in “Nelle terre estreme”. Soprattutto, c’è la certezza di non essere stato lucido, accoppiata all’arroganza di aver invece ricostruito la storia per filo e per segno. Senza intervistare Boukreev, però (le sue dichiarazioni provengono da un’altra intervista, che lo stesso Boukreev gli aveva fornito). Il meticoloso lavoro di intervistatore non è stato poi così meticoloso, visto che mancava la voce (discordante) principale.

Di arroganza, in effetti, Krakauer nei suoi libri ne ha da vendere. E fa sorridere pensare che sia lo stesso difetto che molti attribuivano a Boukreev, senza sapere che era solo parte della “chiusura” caratteriale tipica dell’uomo sovietico. Boukreev ha vissuto anni bui, periodi duri, ha provato sulla propria pelle il crollo di ogni certezza e l’abbandono da parte del proprio Paese. Krakauer ha avuto esperienze ben diverse, e certamente non ha mai inteso la montagna come la intendeva Boukreev. Il quale, e non è un fattore secondario, aveva anche una limitata capacità comunicativa in inglese, cosa che lo portava frequentemente a essere frainteso.

Eppure, ciò non toglie che si sia comportato da eroe. Ciò non toglie che, mentre tutti restavano nelle loro tende nonostante avesse implorato il loro aiuto, fu Boukreev a uscire, sfidando la notte e la tormenta, da solo, per ben due volte. Salvando delle vite. Vite di compagni di spedizione di Krakauer, fra l’altro. Di uomini e donne che lo stesso Jon Krakauer aveva definito “amici”. Lasciati al loro destino, però, nel momento del bisogno. Certo: Krakauer non era una guida. Non era nemmeno compagno di spedizione di Boukreev. Ma proprio per questo, giudicare i compiti e le istruzioni ricevuti da una guida non spettava a lui.

Boukreev ha compiuto uno dei salvataggi più incredibili e coraggiosi della storia dell’alpinismo. Come documentato dai testimoni, del resto, che erano al corrente delle istruzioni di Scott Fischer perché se n’era discusso al campo giorni prima della partenza. E come raccontato più volte dallo stesso Boukreev, anche nelle lettere mai pubblicate scritte alla rivista “Outside” (quella che aveva inviato Krakauer sull’Everest).

Resta un mistero il motivo per cui Krakauer abbia deliberatamente scelto d’ignorare una spiegazione così semplice, così logica e supportata da diverse testimonianza: servivano ossigeno e tè caldo per rimettere in sesto gli scalatori e portarli al sicuro. Boukreev è sceso mentre i clienti delle due spedizioni erano affidati alle cure di altre cinque guide e degli sherpa. Non se l’è data a gambe. Non si è fatto gli affari suoi. Non ha abbandonato scalatori poco esperti al loro destino. Ha rischiato la vita, poco dopo, per salvare vite che senza di lui sarebbero andate perse. E questo credo che apparirebbe evidente a chiunque, come me, avesse studiato la questione. A meno che non ci fosse bisogno di un cattivo, come in ogni storia che si rispetti.

Redazione

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