Art In Pills: il quadro come specchio del proprio dolore, Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi

Una della pittrici, donne, italiane che mi ha sempre affascinato per la sua forza d’animo e intraprendenza e per la tenacia che ha dimostrò nell’affrontare i pettegolezzi e pregiudizi, infondati, sul suo conto è senza ombra di dubbio Artemisia Gentileschi, la figlia di Orazio Gentileschi, anche lui pittore. Osservando le diverse tele della Gentileschi si nota come dal padre, la pittrice riprese l’ordine e il rigore nel definire i soggetti attraverso il disegno. Il gioco di luci spesso presente nei quadri della pittrice era caratterizzato da violenti contrasti di chiaro e scuro che donano ad ogni opera una forte componente drammatica e teatrale di chiare influenza caravaggesca.

Tra i tanti dipinti della Gentileschi ho scelto Giuditta che decapita Oloferne, nella prima versione realizzata tra il 1612/13 e conservata al Museo nazionale di Capodimonte. Una seconda tela con lo stesso soggetto, un po’ più grande e con i colori diversi per quanto riguarda le vesti delle protagoniste, si trova a Firenze, nella Galleria degli Uffizi. Il quadro riprende l’episodio biblico presente nell’Antico Testamento, dove l’ebrea Giuditta decapita, con l’aiuto di una sua fedele ancella, Oloferne per salvaguardare il proprio popolo dall’invasione dei nemici. Altri artisti presero in considerazione tale soggetto per farne quadri (Caravaggio) o sculture, ma quello di Artemisia ha una valenza molto particolare, in quanto strettamente collegato allo stupro che la giovane subì e al successivo processo che la vide coinvolta per incastrare il colpevole.

La l’olio su tela di Giuditta che decapita Oloferne colpisce per l’estrema violenza della scena dipinta, in quanto la Gentileschi raffigura l’esatto istante durante il quale Giuditta, con forza impressionante, recide la testa del nemico. L’effetto tragico è dato anche dall’impostazione del dipinto nel quale le figure emergono dal fondo scuro e tetro grazie alla violenta e fredda luce che irrompe nella tela da sinistra. Questo fascio luminoso guida lo sguardo dell’osservatore al climax dell’evento, dove su un letto si nota il possente corpo di Oloferne cedere alla rabbiosa forza di Giuditta (con veste blu) che, con un gesto netto e preciso, taglia la testa al nemico prendendone le distanza dal corpo, per evitare di farsi imbrattare dal sangue nemico. Ad aiutarla in questo assassinio, la fedele serva (con veste rossa) che senza remore tiene ferma la vittima schiacciandola con il proprio peso.

Se si osservano i volti in penombra delle due donne, da essi sembra non emerge nessuna particolare emozione, ma se si scruta il volto di Giuditta si percepisce una sorta di disgusto e disprezzo. Il volto della serva, invece, è del tutto inespressivo, come se per lei macellare, carne animale o umana, fosse un gesto abituale, quotidiano. Una maggiore brutalità e drammaticità la si nota concentrata in quelle braccia e manitese che tengono fermo Oloferne e che impugnano la lama tagliente. L’impostazione della figura di Giuditta richiama molto quella presente nella tela, con stesso soggetto, realizzata da Caravaggio alla fine del Cinquecento, conservata a Roma, che con molta probabilità la Gentileschi vide di persona.

Passando ad Oloferne, osservando il suo corpo percepiamo come la sua robustezza fisica venga del tutto vanificata dall’irruenza delle due donne, che lo colpiscono nel momento di maggiore debolezza. L’orrore per la violenza in atto traspare tutto dalla smorfia di dolore che l’uomo ha stampato sul volto, espressa dalla bocca semiaperta, dove la voce è stata per sempre strozzata, e dalla fronte corrucciata. Il rosso sangue vivo che schizza su tutto il letto, imbrattando le candide lenzuola, rimarca la drammatica violenza del momento.

Il quadro è stato spesso sottoposto ad analisi psicologica e psicoanalitica, ed esso è stato visto come un vero e proprio desiderio di rivalsa di Artemisia Gentileschi per la violenza subita, ma anche un sorta di richiesta di rispetto per il proprio ruolo di donna violata e di pittrice professionista.

Lo stupro subìto e i pregiudizi per il suo essere donna e pittirce

Le cronache storiche raccontano che Agostino Tassi, artista e grande maestro della prospettiva si trovava a Roma a decorare con Orazio Gentileschi la volta del Casino delle Muse a Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma, ed era abitudine che, dopo il lavoro, spesso il Tassi frequentasse la casa di Gentileschi. Tassi, su suggerimento di Orazio, iniziò la giovane alla pittura e non solo, visto che l’uomo violentò Artemisia e non accettò la proposta del cosiddetto matrimonio riparatore. Il motivo? il Tassi, furbacchione, non solo era sposato, ma aveva pure una relazione con la cognata. Orazio denunciò il Tassi e venne fatto un processo, del quale esiste l’intera documentazione, dal quale emersero, da una parte, la forza d’animo e fisica di Artemisia nel raccontare nei minimi dettagli la violenza subita e, dall’altra, i diversi metodi di indagine usati dal tribunale per verificare la veridicità del fatto (la donna dichiarò tutto l’accaduto sotto tortura). Il tutto si concluse con un condanna per il Tassi, ma molto inferiore rispetto all’atto compiuto, perché nel Seicento per stupro o stuprum (se lo vogliamo usare il latino) si intendeva violazione di una donna vergine o un rapporto sessuale dietro promessa di matrimonio non mantenuta.

Dopo il processo Artemisia si sposò (matrimonio combinato dal padre) nel 1612 con Pierantonio Stiattesi, un modesto artista fiorentino. L’unione coniugale restituì alla giovane – violentata e ingannata dal Tassi- un’adeguata rispettabilità e un po’ di pace dalla quale nacquero quattro figli, ma le inutile continue chiacchiere presenti attorno all’evento del quale la Gentileschi, suo malgrado, fu protagonista le fecero perdere la stima dell’ambiente artistico romano e la costrinsero a recarsi altrove: Firenze e Napoli.

Rimango sempre del parere che, in passato o forse ancora nel presente, per le donne non fosse facile svolgere attività ritenute tipicamente maschili, ma Artemisia Gentileschi, come altre artiste del suo tempo e successive, dimostrò quel coraggio e quella giusta intraprendenza che l’ha fatta arrivare a noi.