“Abolire il Liceo Classico”, idea infantile, balzana, reazionaria

Ci risiamo. Le schiere di militanti ideologici e arrabbiati, nuovamente e anzi costantemente in agguato, riversano i loro pasticciati strali contro la cultura umanistica e in particolare contro l’offerta formativa proposta dal Liceo Classico, indicato da costoro come un mostro settario, intrinsecamente reazionario e antidemocratico (ciò che mette in luce quantomeno una mancata coordinazione del rapporto causa-effetto) e, ancora, inutile se non dannoso, ciò che invece riflette, a monte, la totale mancanza degli strumenti necessari per affrontare un dibattito che però nondimeno deve essere affrontato, possibilmente evitando di cadere in facili tentazioni falsamente modernizzatrici (“le lingue classiche non servono”) e, piuttosto, provincialmente esterofile, prive di una riflessione realmente legata al contesto e allo sforzo di comprendere l’utilità sociale, professionale e financo civica che la formazione classica e umanistica sono capaci di fornire in modo spiccato, educando al dubbio, alla connessione tra le varie discipline, all’abbattimento di rigide separazioni tra ambiti troppo rigidamente tenuti distanti l’un l’altro proprio dai vigenti programmi, ciò che si riverbera anche nelle relazioni sociali e umane. E pazienza se quest’ultimissimo aspetto a qualcuno farà storcere il naso o suonerà retorico.

Ma, comunque la si pensi, di tutto il polverone sollevato dal dibattito intorno al Liceo Classico ciò che forse sorprende di più è il livore e la determinazione di chi ne chiede a gran voce l’abolizione (tra cui il noto e talvolta, diciamolo, un po’ approssimativo e autoreferenziale economista padovano Michele Boldrin), la sua abolizione anche in nome, udite udite, di un qualche “principio democratico”, proprio in quanto la cultura classica rifletterebbe appunto un intrinseco legame con il mondo reazionario. Paccottiglia tutt’altro che nuova, certo, ma nondimeno oggi capace di sedurre offrendo soluzioni semplicistiche e, spesso, bugiarde. Ora, appaiono chiari, forse, i motivi di tutto questo livore. Si scelga soltanto a chi si voglia attribuirne maggiormente l’ideologia: si tratta di una polemica agitata da ex studenti pluri-ripetenti col dente avvelenato? Da qualcuno che per cinque (o più) anni ha dovuto obtorto collo passare le proprie giornate a sfogliare, senza capirli (e spesso, bisogna dirlo, non per colpa loro), Virgilio o Lisia, sino ad arrivare a odiarli? Dai soliti paladini della dicotomia, dicotomia forzatissima rispetto alla realtà delle cose (ché il metodo non è feudo esclusivo delle scienze naturali, come ben sa chi s’interessa di epistemologia e chi, sine ira ac studio, s’interessi ad esempio alla ricerca storica), tra materie scientifiche e umanistiche? Quindi, ancora, da persone che non hanno mai studiato né latino né greco ma che sono animate da una generica quanto confusa e infantile competizione poniamo tra il sapere matematico e fisico da parte e quello classico-umanistico dall’altra?

Certo, è possibile che questo elenco sia monco; ma è difficile evitare di passare attraverso (anche) queste lenti per comprenderne il fenomeno, fenomeno che porta taluni a indicare il Liceo Classico, istituto che “andrebbe chiuso” (così ancora Boldrin).

Noi crediamo che se morte dovrà essere dovrà essere morte naturale (anche se la questione è in realtà molto più articolata di quanto quest’affermazione non esprima). E allora perché mai il progetto di potenziare altre offerte formative, segnatamente gli altri licei e gli istituti tecnici, dovrebbe andare a discapito di un istituto che è (si), per varie ragioni, in crisi rispetto al passato, eliminando dall’offerta scolastica un corso tutt’ora realmente formativo, ancora tutto sommato richiesto e molto più equilibrato e legato all’oggi di quanto si creda? Vadano a leggersi il libro di Lucio Russo, uomo di scienza autore del bel libro intitolato Perché la cultura classica.

Ma torniamo a bomba: possiamo discutere sulla necessità o meno di ridiscuterne in parte l’offerta formativa, di attualizzarlo (senza però snaturarlo); chiedere di abolirlo, però, no. Chiedere di abolirlo non rappresenta una discussione, ma una presa di posizione che è misto di rabbia, ignoranza circa l’attualità e l’utilità di questo corso di studi, frustrazione personale e arroganza.

Per ultimo, ci sia concessa una considerazione finale, che riguarda la capacità media di esprimere concetti più o meno complessi.

La lingua latina, pur zoppicando, fa ancora parte di molti ordinamenti scolastici, almeno sino a quando l’Europa non le darà il colpo di grazia: fa sorridere come in quegli stessi paesi in cui guarda caso le lingue classiche stanno progressivamente scomparendo (Italia, Francia e Germania in prima linea) si continui a denunciare la dilagante incapacità di comprendere un testo, l’inettitudine a saper scegliere termini appropriati, nonché il continuo storpiamento di significato di alcune parole e concetti; ché la lingua è cosa viva e mutevole, ma se viene stravolta a seguito di equivoci interpretativi ciò non può che produrre incomprensioni nella comunicazione oltre che un impoverimento linguistico, che equivale a dire un impoverimento della nostra capacità di esprimerci: ogni lingua porta con sé una visione del mondo, un modo differente di rendere un concetto, di rendere quindi la realtà. Impariamo ad ascoltare le altre lingue, vive o morte che siano.

Marco Testa

Cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storici e archivistici parallelamente a quelli musicali. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio di Torino e docente presso l’Accademia Corale “Stefano Tempia”, collabora con festival e istituti di ricerca. Autore di saggi e articoli, lavora presso l’Archivio di Stato di Torino ed è critico musicale di “Musica – rivista di cultura musicale e discografica” e de “Il Corriere Musicale”.