L’Ulisse di Joyce, il libro impossibile che fingiamo di aver letto

Nel suo On Writing, uno scrittorino da niente come Stephen King racconta un aneddoto per parlare dello stile narrativo di James Joyce: Un giorno, andandolo a trovare, un amico lo avrebbe trovato riverso sullo scrittoio in un atteggiamento di profonda disperazione. «James, cos’è che non va?» avrebbe chiesto l’amico. «È il lavoro?». Joyce avrebbe assentito senza nemmeno sollevare la testa e guardare l’amico. Era naturalmente il lavoro; non lo era sempre? «Quante parole hai scritto oggi?» avrebbe domandato l’amico. E Joyce (sempre in preda alla disperazione, sempre con la faccia posata sulla scrivania): «Sette». «Sette? Ma, James, è ottimo per te!» «Sì» avrebbe risposto Joyce alzando finalmente la testa «Suppongo di sì, ma non so in che ordine vanno!».

A chiunque abbia provato almeno una volta nella vita a leggere l’Ulisse, l’Odissea moderna dello scrittore irlandese, il racconto di King non può non portargli alla mente le prime pagine di quella che è considerata l’opera capostipite del modernismo letterario. Già, le prime pagine, visto che poi quasi nessuno riesce ad andar oltre.

Infatti, dopo aver provato più volte a cimentarmi nella lettura di un testo che, a detta di molti, rappresenta un crocevia per diventare un vero lettore, e dopo averlo ogni volta puntualmente abbandonato, la prima sensazione che ho provato è stata simile a un complesso di inferiorità. Meglio tenere per me questo fallimento – mi ripetevo – visto che a quanto pare sono io che non riesco a comprenderne la magnificenza. Il complesso di inferiorità era diventato così forte da spingermi ad acquistare la Guida alla lettura dell’Ulisse degli Oscar Mondadori, affinché mi aiutasse a portare a termine la mia Odissea letteraria (che poi, a pensarci bene, se esiste una “guida” dev’esserci un motivo). Ma niente. L’unica cosa da fare era continuare a tenersi in disparte mentre amici e conoscenti nelle loro conversazioni facevano sfoggio delle critiche, più o meno positive, al testo.

Finché, ascoltando commenti correnti e ricorrenti, privi di qualsiasi originalità, ha iniziato a balenarmi nella mente un pensiero, supportato poi da una singolare classifica sui libri che fingiamo di aver letto: ma non è che tra un flusso di coscienza e un altro in molti si atteggiano a lettori di Joyce ma in realtà non lo sono affatto? Così ho iniziato a chiedere senza mezzi termini chi effettivamente avesse completato l’impresa. Il vuoto.

Rimpinguata così la mia autostima ho iniziato a comprendere che tra stile giornalistico e narrativo messi insieme, intere pagine senza punteggiatura e le centinaia di citazioni che riempiono il racconto, è per tutti più semplice resistere al richiamo delle sirene che arrivare a leggere il finale dell’Ulisse. Ma da dove nasce questa disparità tra la critica letteraria e la stragrande maggioranza dei lettori? Perché viene considerato un capolavoro un libro che Fantozzi considererebbe La Corazzata Potemkin della letteratura? È evidente che non si possa stroncare un poema epico solo per via dell’incapacità di riuscire a leggerlo. Dunque, non è compito nostro declassare un’opera mastodontica come quella del narratore dublinese. Ma se un mea culpa letterario va fatto, allora è bene che lo facciano in molti, affinché si smetta di millantare capacità di comprensione che non si hanno e si inizi a considerare l’Ulisse di Joyce per quello che è: un libro duro, prolisso, complicato e, in definitiva, per pochi. Non certo un passaggio indispensabile per qualunque lettore. Semplicemente perché, ammettiamolo, la lettura è un piacere, e non è né produttivo né maturo autofustigarsi pur di leggere per forza (e poter dire di averlo letto) un libro che non fa per noi.

Redazione

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