Il valore dell’anonimato letterario nella società dell’individualismo

di Federica Colantoni, in Letteratura, del 11 Mar 2015, 09:24

I libri non hanno alcun bisogno degli autori, una volta che sono stati scritti”.
È stato il concetto chiave della risposta a Saviano alla candidatura al premio Strega, ma Elena Ferrante lo sostiene da anni.
E noi partiamo proprio da qui.
In ogni settore vige la regola aurea secondo cui la pubblicità è tutto. L’immagine è tutto. E il mercato librario non fa eccezione: girate i libri che avete sugli scaffali e ditemi quanti di questi hanno il ritratto dell’autore.
Elena Ferrante ha rifiutato questa regola. Eppure l’attenzione mediatica, nostrana e internazionale, che ha ricevuto in questi anni appare paradossale.
Parallelamente a questo ci si chiede, credo da sempre nel mondo letterario e anche in questa redazione, se l’opera di un autore deve essere separata dalla sua vita. Adattando questo concetto: la validità di un’opera prescinde dal suo autore? Siamo portati a considerare un’opera di qualità (anche) perché conosciamo chi l’ha scritta? Compriamo Stephen King perché è il re dell’horror, ma se qualcun altro avesse scritto It avrebbe avuto lo stesso successo?
Il caso Ferrante va oltre la notorietà. Ma nonostante non abbia un nome e un volto, nel corso degli anni per tutti è diventata Elena Ferrante, la scrittrice de L’amore molesto, de I giorni dell’abbandono e della tetralogia L’amica geniale, opere che si sono distine oltreoceano arrivando tra le pagine del New Yorker.
Il suo caso è emblematico e lo prendiamo come esempio per parlare di pseudonimi e di anonimato.
In passato diverse autrici hanno preso in prestito nomi maschili per aggirare il pregiudizio che imperava nella loro epoca nei confronti delle donne. Le sorelle Brontë divennero nei loro scritti i “fratelli” Bell. La Austen firmava i suoi manoscritti semplicemente con “by a Lady” o “by the author of Sense and Sensibility”. Autori contemporanei e non hanno abbandonato temporaneamente la propria identità per cimentarsi in generi diversi da quelli per cui sono diventati famigerati: J.K. Rowling è diventata Robert Galbraith, lo stesso Stephen King talvolta si è firmato Richard Bachman, Agatha Christie si buttò nella narrativa rosa con il nome Mary Westmacott…
Ma pseudonimo è diverso da anonimato. Lo spiega bene Laura Buffoni in un articolo sempre sulla Ferrante: “Qui non solo il nome perde rilevanza, perché privato del corpo, ma ha una funzione di segno opposto rispetto per esempio all’uso dello pseudonimo, che semmai è un moltiplicatore dell’ego (quando scrivo sono altro da me, sono un me di secondo grado, esaltato dall’arte): in questo caso, invece, è una negazione del proprio statuto di autore a favore dell’opera.” Ciò che afferma è chiaro e significativo, e spiega magistralmente la citazione di apertura a questo articolo. Si assiste a un annichilimento dell’uomo-scrittore che si perde mentre di lui rimane solo la parola scritta, che avrà l’arduo compito di parlare per suo conto. Il che vuol dire che se non è degna, sarà presto dimenticata.
E al lettore questo annullamento del sé in un contesto sociale che fa dell’individuo il suo centro appare strano, curioso: l’America è il paese che ha elevato l’individualismo a religione sociale, pure è affascianato dall’autore ignoto.
Esiste un rapporto silenzioso tra scrittore e lettore. Un rapporto fatto di empatia, fiducia, immedesimazione, comprensione che lo spinge a leggerne le opere che furono e quelle che saranno, alla ricerca di un cambiamento, di una maturazione personale. Ma quando non c’è il personale? O meglio: quando non si sa a chi appartenga tutto il personale che leggiamo, che cosa dovremmo cercare? Il lettore medio sarà in grado di percepire solo dagli scritti le sfumature di una personalità quando questa viene accuratamente celata?

Federica Colantoni

Federica Colantoni nasce a Milano nel 1989. Laureata in Sociologia all’Università Cattolica nel 2013, pochi mesi dopo inizia il percorso di formazione in ambito editoriale frequentando due corsi di editing. Da dicembre 2014 collabora con la rivista online Cultora della quale diventa caporedattrice. Parallelamente pubblica un articolo per il quotidiano online 2duerighe e due recensioni per la rivista bimestrale di cultura e costume La stanza di Virginia.