Buzzati? No, non lo conosco.

di Marco Proietti Mancini, in Blog, del 18 Feb 2015, 12:00

Sabato scorso era San Valentino ed ero ospite da IoCiSto, un meraviglioso spazio creato a Napoli, che è molto, molto più che “solo” una libreria, è uno spazio senza confini tra attività e culture, che unisce le persone e i loro interessi con scaffali pieni di libri. IoCiSto è la risposta basata sull’azionariato popolare alla chiusura epidemica delle librerie “classiche” di Napoli, da Loffredo a Guida alla San Paolo.
Quindi, se siete di Napoli, senza cercare troppe scuse salite fino al Vomero, a via Cimarosa 20, entrate nel portone e informatevi e se vi va associatevi, o almeno – come minimo – compratevi un libro.
Comunque, tornando al punto, per il giorno di San Valentino IoCiSto ha aderito alla “giornata degli innamorati” promossa dal Comune di Napoli, che ha riempito la città di appuntamenti, di incontri, anche – oh finalmente! – nelle librerie.
Il tema dell’incontro di IoCiSto era “galeotto fu il libro” ed io, come tanti altri illustri scrittori (che non sto qui a citare per evitare di farmi pubblicità gratuita accostando il mio nome al loro) sono stato chiamato a leggere un brano e poi parlare, spiegare perché quel libro avesse rappresentato per me la “scoperta dell’amore”.

La mia scelta è ricaduta su “Un amore” di Dino Buzzati (prima edizione, Mondadori 1963). Scelta difficile, ardua, impervia da spiegare e far comprendere, perché racconta la storia di un ossessione prima ancora che di un amore. Descrive, con massima profondità descrittiva dei sentimenti e delle angosce, la capacità distruttiva che un amore può avere, quando – come nel caso del protagonista – è l’amore di un uomo maturo per una prostituta, per di più minorenne.
Roba che adesso prima di scriverla qualsiasi scrittore si sentirebbe tremare i polsi, nella paura di toccare argomenti scomodi, scorretti e impossibili da presentare senza rischiare di essere additati come giustificatori di sentimenti abominevoli.
Ma Buzzati è Buzzati, in una affermazione tanto apodittica quanto vera. Buzzati, può, poteva e può ancora. Buzzati ha (aveva) una tale capacità di scrittura, un talento tanto puro, da poter scrivere cose ingiustificabili, raccontare sentimenti ed emozioni con lo spirito dell’osservatore scientifico, la scienza dell’anima, senza sporcarsi, senza necessità di giustificarle o giustificarsi.
In pratica, Buzzati poteva e può ancora farlo.
Eppure quel brano che ho letto, di tutte le persone che erano lì nella sala, lo conoscevano solo in due; ed erano persone che frequentando librerie sono lettori forti, persone che in larga parte conoscevo e conosco come lettori di ottimo gusto. Ma non conoscevano Buzzati.
Badate, non è che questo sia una colpa, una loro colpa. Affatto.
Ma per me è stata una rivelazione illuminante, una sorpresa che si è trasformata in sconsolante consapevolezza. Inseguiamo gli Houllebecq e i Murakami, idolatriamo autori contemporanei, e molti di noi (noi, non ho scritto “voi”, non vi impermalosite) non riconosce un brano e non conosce Buzzati.
Io non so bene cosa questo voglia dire, ma so che non mi piace. Non perché conoscere Buzzati sia un elemento nozionistico o la dimostrazione di una cultura “superiore” a un’altra. Ma perché, semplicemente, chi ama leggere, chi ama i libri di qualità narrativa e intensità, DOVREBBE conoscere Buzzati e un ambiente letterario veramente attento alla cultura non dovrebbe inseguire solo il mercato e la popolarità sugli scaffali di un autogrill, ma dovrebbe divulgare e diffondere la letteratura di assoluta qualità e valore che in Italia (e non solo) è stata prodotta ed adesso giace dimenticata.
C’è ad onor del vero qualcuno che lo fa – cito a titolo di esempio l’ottimo Nicola Vacca con i suoi editoriali a riscoperta di autori e poeti del 900, in cui con notevolissimo sforzo cerca di riportare a galla autori che non avrebbero MAI dovuto essere sommersi dal tempo. Ma sono pepite minuscole in una frana di banalità e logiche di marketing.
Poi ci sarebbe anche la considerazione sullo stile narrativo di Buzzati. Elaborare quel brano ha significato per me scoprire – riscoprire – che la vera scrittura di talento se ne frega delle regolette delle “scuole di scrittura” sul tipo “più di tre aggettivi sono troppi”, “le frasi devono essere brevi”, “non bisogna cambiare tempo verbale all’interno di una stessa frase”.
Tutte cose vere per gli impiegati della penna o della tastiera, per studenti che appiattiranno la loro personalità narrativa sull’altare delle sacre regole che non si sa quale editor microtalentato abbia stabilito.
Buzzati usa aggettivi a decine, scrive frasi lunghissime, cambia tre tempi verbali in un solo paragrafo. La sua è arte, e l’arte, signori miei, conosce un’unica Sacra regola, quella del bello.
Ma su questo, forse, scriverò altro in un’altra occasione, se me ne verrà voglia.
Intanto voi fate i bravi, alzatevi e andate in una libreria e – per una volta – lasciate stare Horror, Fantasy, i libri della top ten, andate da un commesso e chiedete un Buzzati.
Soddisfatti o rimborsati, sono sicurò che non vi rimborserò.

Marco Proietti Mancini

Sono del 1961, quindi ho fatto tutta la vita in discesa (nel senso che non ha fatto altro che peggiorare). Scrivo da sempre, pubblico da poco e mi domando continuamente “ma chi me l’ha fatto fare?” Mi trovate qui, mi trovate su Facebook, mi trovate in libreria con “Da parte di Padre”, “Roma per sempre”, “Gli anni belli” e l’ultima creatura “Oltre gli occhi”. Ma tranquilli, se non mi trovate voi vi verrò a cercare io e scriverò di voi nel prossimo romanzo. Poi non vi lamentate se vi riconoscete nella parte del brutto e cattivo. “Tiri Mancini” è il mio personale terrazzino sul mondo, che di balcone famoso in Italia ne abbiamo già avuto uno e il padrone del balcone non è che abbia fatto una bella fine. Quindi – per chi passa e si ferma – preparatevi a gustare un panorama diverso da quello che vi mostrano gli altri, almeno io ci proverò, a farvelo vedere dal lato Mancini. Che fine farò io? Dipenderà da voi.