A Pripyat la giostra fa ancora il suo giro

Infinite sono le volte che seduto a tavola davanti a un piatto di insalata ho ascoltato mia mamma e il suo racconto sulla catastrofe di Chernobyl. E infinite sono le volte che ho sfogliato il mio atlante De Agostini sognando di visitare di persona i luoghi del disastro nucleare di quel 26 aprile 1986. Appoggio il mio Eastpak impolverato di fianco al lavandino arrugginito. Sprofondo con le ginocchia sul letto, sposto un po’ la tenda e allungo il collo per guardare fuori. Alla finestra incrocio il mio sguardo incredulo. Tra le foglie cadute a bordo strada se ne sta solitaria una vecchia Lada bianca. Un lampione tremolante fa danzare qualche panno steso sui balconi. Non c’è nessuno. È buio. È notte. E io ho realizzato quel sogno. Sono a Chernobyl.

Bologna-Monaco, Monaco-Kiev. Sono arrivato su un volo Lufthansa ieri nel tardo pomeriggio, giusto in tempo per godermi un tramonto magnifico a sedere accanto alle rovine della Chiesa delle Decime e per fare due passi tra i colori delle fontane di Piazza dell’Indipendenza. Alle mie spalle l’Hotel Ucraina, da dove quel 20 febbraio 2014 i cecchini spararono per “uccidere più persone che potevamo”. Mi sono infilato in un mini-market h24 per fare scorta di acqua e cibo. Poi mi sono infilato sotto le coperte e mi son messo a dormire.

La sveglia alle sei in punto. Una doccia veloce. Colazione con una fetta di torta spartak confezionata. Occhiali e occhiaie. Cellulare. Soldi. Passaporto. Un nodo stretto alle mie Air Max e poi giù dalle scale grigie e maleodoranti dello Stalinska di via Mykhailivsky. Nella cartina avevo cerchiato la stazione centrale. Spintonato un po’ dalle persone e un po’ dalla fortuna sono riuscito a prendere la metropolitana giusta. Ma le facce che mi fissavano una volta fuori mi hanno fatto capire subito che l’uscita era quella sbagliata. Il pulmino mi stava aspettando dall’altra parte. “Hello. Nice to meet you. I’m Valentino”. Poche parole e trecento dollari in contanti. E’ iniziato così il tour.

Un Mercedes Sprinter da nove posti. Noi in sette. Ognuno da solo. Ognuno da chissà quale parte del mondo e chissà per quale motivo finito dentro quel pulmino. Denis, la nostra guida, inizia il racconto. Nello schermo montato nello schienale scorrono immagini dei giorni del disastro, fuori dal finestrino invece scorrono i blok sovietici. Cerco di non addormentarmi, e le buche nell’asfalto in questo mi aiutano. Dopo circa due ore arriviamo al primo check-point. Tutti fuori. In fila indiana. Passaporti. Metal detector. Ci ricordano che non si può toccare nulla. Non ci si può sedere. Non si può mangiare o bere se non dentro il veicolo. E che non bisogna farsi male perché l’ospedale più vicino è a 70 chilometri e, nel caso, nessuno ci verrà a prendere e nessuno ci porterà. Tutto chiaro. Possiamo proseguire. Dopo altri due check-point il furgone si ferma e si apre lo sportello. Due cani ci vengono incontro abbaiando minacciosi. Due biscotti secchi e diventiamo subito migliori amici. Mi guardo attorno stringendo gli occhi dietro gli occhiali scuri. L’aria è calda. Il cielo è pallido. E sulla lingua sento immediatamente un sapore metallico. Il dosimetro inizia a suonare ad intermittenza e Denis a ripetere le sue mille raccomandazioni. Siamo a Pripyat.

Facendoci strada con le braccia tra gli arbusti e le zanzare entriamo nel vecchio ospedale. Salendo le scale diroccate e aggirandomi nei corridoi bui mi chiedo se mai riuscirò a raccontare ciò che sto vedendo. Mi serviranno sicuramente tante notti insonni con parecchi bicchieri di rum e poi non riuscirò a descrivere la sala operatoria con il lettino arrugginito ancora lì nel mezzo sotto la lampada di ceramica. La pediatria con ancora i tredici lettini in fila. La carcassa di un pianoforte nella sala degli spettacoli. Le tute dei liquidatori che per primi provarono a contenere il disastro e che per primi morirono. Il rumore dei nostri piedi che calpestano le piastrelle azzurre scollate. Su fino al tetto da dove si vede tutta la città fantasma. Il cinema e il telo bianco strappato del suo schermo. Il teatro e la sua pioggia di funi dietro ad un sipario che non si è mai più riaperto. L’hotel Polissya sulla piazza principale. Le palestre con ancora le porte da calcetto, i canestri da basket e il ring per gli incontri di pugilato. I trampolini sulla piscina vuota. Lo stadio con la gradinata deserta che si affaccia sulla pista di atletica e il campo da calcio ormai pieno di alberi. Una montagna di maschere antigas. Un orsacchiotto di peluche. Uno di quei camion gialli e rossi che da bambino usavo in spiaggia per grandi opere di sabbia. Una bambola seduta a fianco di un orologio fermo alle ore 1:23. Perché qui il tempo si è fermato a quell’ora di quella notte. Anche dentro questa scuola elementare dove ci sono ancora i quaderni e i cappottini chiusi negli armadietti. E dove io rimango immobile qualche secondo tra i banchi impolverati e ormai sbiaditi mentre mi scattano una foto.

Quando esco metto gli occhiali da sole. Tra gli alberi uno scivolo arrugginito e una panchina. Chissà dove sono ora quei bambini che giocavano qui. E chissà se con qualcuno di loro ho fatto qualche tiro a pallone nei giardini pubblici durante qualche estate degli anni ‘90. Pochi passi ancora. L’unico rumore è la ghiaia che scricchiola sotto i nostri piedi. Quando alzo la testa sono sotto al simbolo di Pripyat: la famosa ruota panoramica. Il vento sibila tra le cabine gialle e poco più in là fa girare come un vecchio carillon la giostra da trentatré anni. Laggiù c’è l’autoscontro. E mentre i dosimetri dei miei compagni di avventura impazziscono io rimango lì con le braccia ai fianchi. Stanco. Emozionato. Sperduto. Dove l’uomo ha sfidato la fisica dimenticandosi della cosa più importante: la vita.

Il mio Casio al polso segna poco meno della mezzanotte. Spengo la luce. Anche domani la sveglia suonerà molto presto. Faremo colazione con uova fritte e succo di mirtillo, almeno credo. Visiteremo la città di Chernobyl. Dal memoriale cammineremo a testa bassa e in silenzio tra le decine di cartelli delle città “morte”. Faremo una foto all’angelo che suona la tromba dell’Apocalisse. Arriveremo a pochi metri dal sarcofago del reattore numero 4. Mangeremo un borsch molto annacquato nella taverna militare. Poi proveremo ad entrare di nascosto nel reattore 5 e scapperemo dalle guardie attraverso la Foresta rossa fino al radar Duga-3. Lì Denis ci farà una domanda a cui non saprò rispondere. Ma so che da questa notte, qualche volta prima di addormentarmi, mi chiederò se a Pripyat sibila il vento mentre la giostra fa il suo giro.