Una generazione senza lacrime: quelle domande inutili dei cronisti ai terremotati

Non voglio dare lezioni, anche se per età (e per esperienza) potrei anche azzardarmi a fornire qualche consiglio. Ho passato la vita fra guerre e disastri e so bene che non bisogna visualizzare la morte per dare il senso di una tragedia. Sono stato addestrato al rispetto delle vittime e al pudore dei sentimenti pur impegnato per mestiere a raccontare la fine della vita. Non è facile fare televisione, lo so. Ma il senso di responsabilità, la misura, deve essere sempre presente perché si è il tramite con l’evento e la gente a casa vede quello che tu rappresenti.

Cosa pensate che ci si ritrovi davanti dopo lo scoppio di un’autobomba o dopo uno tsunami? Ma certo non si può chiedere a una madre davanti al cadavere del figlio: “cosa prova?” Come se si potesse spiegare il dolore. Come non si può chiedere ai terremotati senza più niente, spesso neppure i ricordi, “e adesso che farete?”

Ho vissuto tante volte, dal di dentro, l’incubo di un sisma, ho partecipato all’angoscia e convissuto il dramma di chi ha perso ogni cosa, spesso anche la vita dei propri cari. E già mi commuove l’immagine di un padre disperato che piange sulle macerie. So che il momento più brutto deve ancora arrivare, quando non sai come (e perché!) ricominciare. Ricordo il momento triste dell’esodo, ho nel cuore le testimonianze sul nulla, la paura infinita. Non solo da cronista, anch’io sono stato un terremotato quando una botta terrificante ha lesionato la mia casa anconetana e sono andato a dormire in tenda assistito dal mio angelo custode, nonna Assunta, prima di sfollare lontano chilometri dal posto di lavoro.

Ma ho vissuto da terremotato anche all’Aquila, nella tendopoli in piazza d’Armi, o nella Bam rasa al suolo, dall’altra parte del mondo. E la paura: quella volta a Cesi quando la scossa mi ha colto all’aperto e ho sentito la terra tremare sotto i piedi, completamente indifeso. O a Colfiorito sorpreso dentro una casa di latta come ho sempre chiamato i container. Porto tutto dentro di me, consapevole di aver attraversato le catastrofi in punta di piedi. Talvolta, forse, trasferendo la mia anima e le mie emozioni.

Ma adesso è tutto diverso. L’informazione è gridata, ragazzini assatanati non conoscono limiti alla decenza e al rispetto. Vanno sempre oltre, nati e cresciuti dentro una concorrenza spietata. E spesso non bastano gli ultimi maestri a frenarli. Sono seriamente preoccupato: sta crescendo una generazione simile a un algoritmo, senza lacrime. Robot che non sanno più piangere.

Tratto da: La Torre di Babele

Pino Scaccia

Inviato storico del Tg1 Rai. Ha seguito i più importanti avvenimenti degli ultimi trent’anni. Prima di dedicarsi a tempo pieno all’attività di scrittore, è stato capo redattore dei servizi speciali del Tg1. “Giornalismo, ritorno al futuro” (Giubilei Regnani) è il suo ultimo libro.

Pino Scaccia ha detto ciò che penso sempre io. Concordo in toto il tuo pensiero

Purtroppo è la televisione che ha provocato questa distorsione della realtà, per la produzione di parole a tutti i costi, in continuazione… Contro la cultura del silenzio e della riflessione pensosa.

Certamente ma non solo, la televisione ha contribuito in modo significativo avendo cambiato il “modello culturale” e la competitività a tutti i costi propugnata attraverso il modello liberista voluto e indotto. Direi anzi che la televisione è stato il mezzo ideale attraverso il quale è stato fatto il lavaggio del cervello a interi popoli. Il tutto condito da un’informazione pilotata ad hoc che veicola il dibattito su argomenti del tutto secondari. Siamo nel pieno mondo di Orwell. Auguri a tutti.

La sensazione che ho è che molti di loro credano di essere “essi stessi” la notizia. Anche il mio lavoro di autore mi porta spesso a raccontare in TV dolore e tristezza ma lo faccio usando cuore e cervello con umiltà, senso della dignità e rispetto. Prima di cominciare basterebbe chiedersi “cosa proverei se fosse capitato a me?”