Tommaso di Giulio: promessa della musica d’autore

di Sergio Mario Ottaiano, in Musica, del 5 Ott 2015, 14:00

Ho avuto la fortuna di conoscere e, successivamente, di poter intervistare Tommaso di Giulio: un cantautore romano che però non si definisce tale. Un artista che ha molto da dire e che vanta una carriera densa d’incontri, collaborazioni e successi: una vera promessa della musica d’autore italiana, un punto sicuro nel futuro del panorama musicale della nostra penisola.
Ecco il nostro scambio di battute:

Tommaso di Giulio, una voce calda che si erge nel panorama musicale italiano. La tua arma è il cantautorato, come pensi che si sia evoluto questo genere negli anni? In particolare, secondo te, come si sono evoluti i temi della canzone d’autore da Ciampi ad oggi?

Confesso di avere un po’ di riserve nei confronti della parola “cantautorato”. Non mi riconosco molto nella categoria, specie se intendiamo quel tipo di figura rubata ad un immaginario un po’ anni ’70 che privilegia le parole rispetto alla musica e che tende a concentrarsi soprattutto su tematiche sociali o pseudo-tali. Potrei citare tante famose coppie che lavoravano in sinergia, come una band − Battisti e Mogol o Battisti e Panella, Max e Francesco Gazzè, Gaber e Luporini, Lucio Dalla e Roversi, Piero Ciampi e Marchetti, ecc. −, tutti a loro modo fondamentali nel panorama della canzone italiana, tanto per dimostrare che l’impianto che sorregge l’idea che molti hanno del cantautore è sfilacciata. All’estero la distinzione tra band, performers e songwriters (daresti mai del cantautore a David Bowie?) non rimanda a problemi ideologici o, peggio, a concetti come “d’autore” o “non d’autore”. Ciò non toglie che sicuramente sappiamo distinguere tutti tra una roba senz’anima, creata solamente per occupare buona parte dei palinsesti e qualcosa che faccia battere il cuore (o il piede a tempo) con stile, gusto e, magari, un pizzico di originalità. I temi trattati, invece, più che essere cambiati credo si siano ampliati notevolmente: c’è di sicuro un forte ritorno al racconto del privato, delle emozioni, della soggettività. Purtroppo mi sembra invece che sul fronte della canzone engagé siamo in un momento storico in cui molti autori e band che predicano e cantano l’impegno scadono poi molto spesso in sermoni didascalici, che insipidiscono e fanno solo male a chi ascolta.

Parliamo un po’ della tua carriera: sei uno dei quattro fortunati vincitori, nel 2012, del prestigioso concorso Musicultura; nel 2014 artista della settimana per MTV New Generation; due album all’attivo e numerose collaborazioni. Qual è il tuo segreto? Quali sono le tue radici socio-culturali e, soprattutto, musicali?

Nessun segreto in realtà, solo una gran voglia di suonare e condividere con più persone possibili delle belle serate, emozionandoci a vicenda. Una delle cose belle di fare questo mestiere è, infatti, che ti permette di viaggiare parecchio, conoscere più a fondo la tua terra e quella degli altri, scoprire umanità straordinarie e a volte anche mostruose ma che comunque ti arricchiscono in modo pazzesco. Per quanto riguarda le mie radici, da grande musicofilo e collezionista di dischi, posso affermare tranquillamente che dalle mie orecchie sia passato un po’ di tutto, dal metal estremo fino a certa elettronica, dagli Einstuerzende Neubauten a Caetano Veloso. Tuttavia sono tre i mondi musicali che più mi hanno formato e che più entrano nelle mie canzoni: il rock’n’roll americano anni ’50, che mi folgorò da piccolissimo e che è stato il primo genere che ho cantato con la mia primissima band al liceo; il post-punk e la new wave (specialmente i Cure, i Joy Division e i Talking Heads) e alcuni cantautori italiani che sentivano in casa i miei, principalmente Battiato, Battisti, Lucio Dalla, Paolo Conte, Gaber, Ciampi e Jannacci. Poi, da adolescente, mi sono innamorato della scuola romana anni ’90, i vari Gazzè, Fabi, Silvestri, Sinigallia, che tutt’ora rappresentano un’eccellenza nel nostro paese.

La tua carriera all’estero, un po’ un Gianmaria Testa, ma più giovane. Cosa ci puoi raccontare di queste tue esperienze? Com’è vista la musica italiana al di fuori dei confini della nazione?

Magari Gian Maria Testa! Io per ora ho avuto solo qualche sporadica, ma emozionante, occasione di suonare fuori. In tutto 6 concerti, per ora tre a Parigi (città che ama moltissimo i cantautori), uno a Marsiglia, uno a Bruxelles e uno a Londra. Tutti concerti da ricordare, in posti piccoli da non più di 80 persone, con pubblici attentissimi, partecipi e, almeno per quanto mi è capitato, un po’ meno presenziasti rispetto a una certa fetta di pubblico italiano.

Ogni musicista, ha sempre un’immagine idealizzata dell’amore. È vero? Qual è la tua?

Ah, qua apriamo un mondo, nei miei dischi si sente quanto tenga all’argomento. Credo che cantare l’amore sia il mezzo più diretto e sincero per parlare di tutto, anche non dell’amore. Con le canzoni d’amore si può parlare anche di politica e di mille altre cose. È un concetto molto molto ampio. Diciamo che provo compassione per quelli che dicono di non amare le canzoni d’amore; per me è quasi come dire non amare le canzoni in generale. L’importante è cercare di non cantare l’amore con banalità: ci sono ancora migliaia di modi per farlo…

Nel tuo ultimo disco, L’ora Solare, il brano Il Misantropo è uno dei più interessanti. Nella società odierna, quanto siamo misantropi? Hai aperto molti concerti, tra cui Max Gazzè, Battiato e Mannarino, la misantropia è sparita in quelle occasioni? Quale ricordi con più piacere?

Hai citato tre concerti in cui la misantropia è proprio scomparsa. Mi sono trovato difronte a migliaia di persone che aspettavano un altro artista ma mi hanno accolto come se avessero pagato il biglietto per me. L’esperienza degli opening per Battiato e Gazzè la ricordo con particolare trasporto, perché si tratta di due artisti di cui ho veramente consumato la discografia, e il fatto di potermi relazionare con loro, al di là del palco e del dietro le quinte, scoprendo ottimi esseri umani oltre che artisti giganti è stato fenomenale. Il Misantropo invece è una canzone che racconta proprio di un mio cambiamento personale: negli ultimi anni, specialmente grazie alla musica e ai tour, mi sono molto aperto agli altri e ho scoperto che casi inaspettati portano il tuo carattere a migliorare anche quando pensavi di avere ogni certezza.

Un altro brano interessante è La fine del dopo, parli del tempo e del fatto che tu lo abbia ucciso un po’ come fa Nietzsche con Dio. Per te cosa vuol dire fermare il tempo e ucciderlo?

Sono sostanzialmente un cronofobico e mi sembra sempre di avere poco tempo a disposizione rispetto alle cose che vorrei e potrei fare. Ho fatto due dischi per esorcizzare ‘sta cosa e temo che anche il terzo, più o meno, se la prenderà con il tempo. Così almeno posso dire di aver chiuso una trilogia; non sia mai che io riesca poi a guarire un po’!

Tommaso di Giulio e la sua band continueranno fino all’estate prossima a suonare in tour il loro nuovo disco, potete ascoltarli su tutte le piattaforme digitali e seguirli sulla loro pagina Facebook.