Spezziamo una lancia a favore della divulgazione. Note su Indro Montanelli e la Storia

Sull’ampia mole di testi divulgativi di cultura storica, testimone di un mercato evidentemente vivace, ci si è pronunciati nei contesti più disparati. Se poi quei libri abbiano effettivamente contribuito alla diffusione del sapere storico è una questione ben lungi da unire i protagonisti del dibattito. Due studiose, Marina Caffiero e Micaela Procaccia, hanno sottolineato il rischio che il profano, impugnando egli stesso la penna, possa appropriarsi della storia sino ad auto attribuirsi l’etichetta di storico, fenomeno che non avrebbe eguali in nessun altro settore (e su questo dubitiamo). Sulla stessa scia Mario Isnenghi, decano della storiografia italiana, ha sostenuto:

L’auto candidatura di giornali e giornalisti a rappresentarsi come veri storici non ha fatto che rinforzare e trovare sempre maggiore udienza editoriale, sino agli attuali successi di tiratura e audience di Bruno Vespa e di Gian Paolo Pansa (in La Storia negata, Neri Pozza, Vicenza 2008).

Un problema relativo al deperire del sapere storico (e pure al suo utilizzo come strumento di lotta politica) esiste certamente, e gli habitué della libreria o della televisione non dovranno faticare molto per trovarne riscontro tangibile. Per quanto riguarda invece l’universo del web, è fisiologico, nella cultura storica come in tutti gli altri campi, che del materiale di qualità si alterni a ciarpame dove fantasia e sindrome del complotto si mescolano in modo grottesco, ancorché per alcuni evidentemente seducente.
D’altra parte non si può negare che la produzione divulgativa contenga pure qualche elemento positivo: innanzitutto non si tratta solo di materiale di bassa lega, come pare recitare, con cattedratico sopracciglio sollevato, una certa opinione corrente. Ma ciò che forse più conta, rimanendo nei pur incerti limiti della Storia, è che ha avuto il merito di allargare i gusti del lettore medio verso il proprio passato, spalancandogli le porte del dibattito pubblico sino a forgiare, in ultima analisi, una qualche coscienza storica. Certo, magari ancora infarcita d’ingenuità e luoghi comuni; ma comunque contribuendovi.
Si sente spesso dire che negli ultimi vent’anni il livello culturale degli italiani si sia notevolmente abbassato. Forse non è completamente esatto: è venuta alla ribalta, ciò è innegabile, una controcultura, e gli approssimativi sembrano aver colonizzato fette considerevoli di opinione pubblica; ma quello strato di persone informate, o desiderose di farlo, coloro che insomma dispongono degli strumenti sufficienti per n0n farsi travolgere, non sono cadute in questa spirale. Il rapporto si è forse riequilibrato (e nemmeno su questo metteremmo la mano sul fuoco), ma non ha contagiato chi a questa involuzione era in grado di dare una risposta decisa. L’Italia non ha perduto i suoi intellettuali, né il suo strato di borghesia colta (sottile che sia); piuttosto, paese di eterni contemporanei, l’Italia ha perso la sua memoria, e ne paga le conseguenze durante l’epoca della globalizzazione, dove i temi di identità, cultura e industrie culturali conoscono un’espansione e quindi un’opportunità senza precedenti.
Quando un giovane Indro Montanelli chiese al suo maestro e mentore Ugo Ojetti perché non avesse mai raccolto in un volume le sue testimonianze di una vita da giornalista, questi gli rispose: “E per chi avrei dovuto farlo? … tu non l’hai ancora capito, caro Indro: l’Italia e un paese di contemporanei, senza antenati né posteri, perché senza memoria”.
Montanelli, dapprima titubante, finirà per dargli ragione, ma sarà una ragione con la quale dovrà scendere a patti, innamorato com’era della storia e così desideroso di narrarla. Criticabile sotto diversi aspetti, è però difficile negare che i testi che compongono la sua Storia d’Italia abbiano avuto il merito di avvicinare i non addetti ai lavori a dei contenuti a volte difficilmente avvicinabili. La divulgazione non è necessariamente (nella sua accezione negativa) approssimazione, né la semplificazione, fisiologica nella divulgazione, può essere presa per approssimazione. L’opinione pubblica non la fanno le sole élite; senza l’apporto della cosiddetta cultura media essa risulterebbe, anzi, monca, incompleta.
Comunque, il successo dell’Opera di Montanelli fu fulmineo: nei primi anni dal suo debutto non si contavano più le ristampe e in alcuni casi le tirature avevano oltrepassato la soglia delle duecentomila copie. E se il numero di copie stampate non è il miglior metro per stabilire il valore di un’opera, può comunque certificarne, almeno in parte, l’efficacia. E l’efficacia, vista la natura dei destinatari, si misurava anche sui grandi numeri. Ciò che forse più conta nei testi di Montanelli è l’aver istillato nel lettore una certa dose di curiosità, l’avergli consentito di rispolverare i temi su cui si era annoiato nei banchi di scuola. Ci sembra francamente un risultato significativo e, visti i risultati, crediamo ineguagliato limitatamente al caso italiano.

Nello scrivere i suoi oltre venti volumi, da Romolo e Remo (senza contare un precedente testo sulla Grecia antica) all’Italia di Prodi e Berlusconi, Montanelli si portò appresso alcuni errori di valutazione che avrebbe lasciato in eredità ai suoi lettori. Alcuni studiosi si misero alla ricerca di quegli errori come facevano i gesuiti davanti alle tesi protestanti. Denunciando quelle imprecisioni denunciavano l’impostazione dell’Opera, richiamandosi a quel metodo sì imprescindibile, ma che non di rado essi sbandieravano più come pretesto di inattaccabilità che come prova di autorevolezza. Diciamolo pure: se alcune migliaia di persone (estranee e non di rado persino non estranee al club degli addetti ai lavori) hanno potuto schiarirsi le idee sulla Controriforma e sull’impatto che ancora oggi si fa sentire in Italia, o su alcune pagine di Dante e Boccaccio, a Montanelli bisogna riconoscere qualche merito. Piaccia o non piaccia alle livorose sentinelle della memoria e agli schizzinosi di ogni disciplina.

Marco Testa

Nato nel 1983 e cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, archivista e storico, parallelamente ha compiuto studi musicali. Autore di saggi e numerosi articoli, scrive su “Cultora” e su “Il Corriere Musicale”. Lavora presso istituti storici e musicologici; è stato invitato dal direttivo dello Xenia Ensemble a moderare alcune conferenze nell’ambito del Festival di musica “EstOvest”. Adora (quasi) tutto ciò che è Musica, il mare, la letteratura di viaggio, la letteratura e il cinema horror, gli antichi borghi, la storia e la cultura della sua Sardegna, il buon cibo e molto altro. Vive a Torino dal 2008.