Per Pasolini “un piccolo Paese non può dare un grande scrittore”. Ne siamo sicuri?

In occasione dei 40 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, la rivista online Doppiozero sta riproponendo in questi giorni una serie d’interviste “disperse”, rilasciate dal poeta di Casarsa nel corso del tempo a giornalisti, critici e saggisti.
In quella di Manlio Cancogni del 1967, Pasolini afferma che “un piccolo Paese non può dare un grande scrittore. Ogni libro è in rapporto al suo background culturale. Se questo è mediocre anche il libro lo sarà. Possono esserci delle eccezioni, ma allora si tratta di persone culturalmente apolidi, che hanno un taglio europeo, cresciute in un circuito culturale più vasto. L’Italia è una piccola nazione, meschina. Lo ripeto: non può dare un grande libro”.
A questo punto Cancogni fa notare a Pasolini che “c’è chi è indipendente e chi è legato al gruppo. E se uno è gregario, o ha i paraocchi, lo resta anche se passa sei mesi all’anno a New York”. Da questo scambio tra i due emerge anche la visione di Pasolini della cultura del ‘900, una cultura irrazionalista generata dal senso di colpa della classe al potere (la borghesia) che ha scelto di suicidarsi: “Attraverso l’uccisione della ragione, la borghesia si è suicidata espiando la sua colpa, la colpa di detenere il potere.” Nell’esprimere quest’irrazionalismo, questa rivolta, c’è differenza tra chi s’oppone a una grande società o a una piccola: “Nel primo caso potrai fare delle cose grandi, nel secondo delle cose piccole. Ginsberg si oppone a Johnson che è un gigante (perché rappresenta l’imperialismo americano) e quindi anche lui lo è. Da noi a che cosa serve polemizzare con la polizia locale? No, no, no: se nasci in un piccolo paese sei fregato. Conti solo se appartieni a una cultura egemone”.
Premesso che PPP è uno dei più grandi intellettuali italiani del secondo ‘900 per la produzione letteraria come quella cinematografica, le poesie in dialetto friulano come le invettive di critica sociale ospitate dal Corriere della Sera, la sua affermazione lascia perplessi.
Siamo sicuri che le contingenze storico-sociali fossero (e siano) così importanti nella produzione di un’opera letteraria, al punto da incidere negativamente sulla sua qualità artistica? Certo, per chi nasce in Papua Nuova Guinea o nello Zimbabwe sì (per ovvi motivi), ma PPP si riferisce a un paese occidentale − periferico se vogliamo, ma in grado di garantire una fruizione del sapere piuttosto generalizzata, non solo appannaggio delle élites borghesi.
Siamo sicuri, inoltre, che lo scrittore non sia in grado di trascendere i rivolgimenti politici e sociali della sua epoca? Che non abbia obiettivi diversi, di più ampio respiro,che non prevedono l’esigenza di opporsi a Lyndon Johnson? È stato così determinante per Giacomo Leopardi, costretto entro gli angusti confini di Recanati, il contesto sociale, ai fini della sua produzione letteraria? Sarebbe dovuto nascere nella Francia post-illuminista, napoleonica, per concepire L’infinito? O il senso di claustrazione patito a Recanati si è rivelato decisivo, perché è bastato quel disagio − che avrebbe potuto sperimentare in tanti altri luoghi, più o meno periferici − a scatenare la scintilla creativa? Data la profondità di pensiero e l’immenso valore letterario delle sue opere sembrerebbe di sì.
Concludendo, per confutare quest’affermazione di Pasolini basterebbe citare un autore del secolo scorso che pur nascendo in Italia è riuscito, grazie al suo talento e all’enorme valore artistico delle sue opere a travalicare i confini ristretti dello Stivale: si tratta di Pier Paolo Pasolini.

Andrea Emmanuele Cappelli

Andrea Emmanuele Cappelli nasce a Forlì nel 1993. Vive a Meldola (dove ricopre la carica di consigliere comunale). Ha scritto per la Voce di Romagna e per Libero. Stanco della compagnia altrui, trascorre le giornate tra i boschi dell’Appennino romagnolo, in totale solitudine. Rilegge spesso lo Zibaldone di Leopardi.