O leader o capibranco

di Marco Proietti Mancini, in Blog, del 12 Dic 2014, 10:30

Leader.
La parola mi piace, anglofona al punto giusto, sintetica e applicabile a un sacco di contesti. La Treccani, per dirne una, lo colloca prevalentemente in ambito politico e poi – secondariamente – come definizione sportiva.

Io veramente la credevo e la usavo (la uso) anche come sinonimo di “guida”, spirituale o gerarchica ma non istituzionalizzata. Il capo gerarchico è quello che ha un potere fornito da un ruolo, da un’etichetta. Si può essere capi senza essere leader, ma se si è leader si sarà sempre – in qualche modo – capo di qualcuno, capo di qualcosa.

Il leader è per vocazione, istinto, innata capacità, qualcuno a cui fare riferimento, a cui appoggiarsi e da cui trarre esempio e insegnamento. Il leader non ama l’adulazione, semplicemente perché non ne ha bisogno, non cerca la gratificazione di un consenso strumentale, fornito per ottenere la sua condiscendenza. Un leader non abdica mai, non volta mai la testa. Un leader è sempre consapevole delle sue responsabilità e soprattutto, essendo naturalmente leader, delle sue responsabilità indirette; ovvero di quelle che gli derivano da quel che fanno quelli che seguono le sue indicazioni, il suo esempio. Da quelli che lo affermano o non lo affermano ma di fatto si ispirano a lui.
Un leader ci mette la faccia, paga per tutti, anche per gli ordini che non ha impartito, perché un leader non dà ordini, dà solo l’esempio. Un leader, tra le mille virtù, non vuole un seguito qualsiasi, non conta il numero delle persone che lo considerano leader, ma ne misura la qualità. Un leader aiuta, primo tra i primi, riconosce il merito, fa crescere gli altri leader, anche quelli più bravi di lui.

A questo punto la domanda verrebbe spontanea. Voi, quanti leader conoscete? Io pochi, pochissimi. Ne ho di anni, eppure in tutta la mia vita ne ho incontrati e conosciuti tanti da poterli contare sulle dita di una sola mano.

Però, se avessi dovuto contare i capibranco, allora fossi anche un polipo, una mano per ogni ventosa, non mi basterebbero le dita per contarli tutti quanti sono.

Il capobranco è l’antitesi del leader, non perché non possieda le qualità del comando, ma perché le distorce e le usa per acquisire potere personale, per compiacersi e gratificarsi di un qualsiasi consenso, di un qualsiasi apprezzamento, da chiunque gli provenga e comunque gli arrivi.

Tanto il leader ha persone che migliorano con lui, così il capobranco fa peggiorare la sua muta di seguaci, di fan, di pecoroni (nei comportamenti e nella posizione) che lo seguono. Il capobranco non paga mai, né per i suoi errori né per quelli dei suoi seguaci, si bea dell’essere idolatrato, vezzeggiato, coccolato. Quando qualcuno dei suoi esegue un suo ordine – quasi sempre dato in maniera indiretta, in modo da evitarne le responsabilità – lui è sempre pronto a scaricargli addosso la colpa di ogni errore, a fare in modo che sia lui e solo lui a pagarne le conseguenze. “Io? Che c’entro io? E’ lui che ha detto, fatto, criticato, commentato, agito. Se un idiota dice di essersi ispirato a me, perché dovrei essere io a pagare le conseguenze del suo sbaglio?”

Per questo – se il leader ha bisogno di persone intelligenti – il capobranco ha bisogno di idioti. Diligenti, obbedienti idioti.

Il capobranco non scende mai in lizza, rimane lì sulla collinetta, dopo aver scatenato la furia, solo ogni tanto interviene, ma solo quando l’obiettivo è conquistato, la vittima agonizzante, a dare il colpo di grazia. Magari vestendolo – appunto come dice il nome – dell’abito della pietà. Pietà pelosa e interessata anche quella.

Il capobranco non può essere criticato, il capobranco non può essere attaccato, quando succede il capobranco non deve neanche difendersi, alza un mignolino e chiama a raccolta il branco “lo vedete quello? Mi infastidisce.”

Una volta esistevano solo nella mala, i capobranco. Adesso li abbiamo esportati nel giornalismo, nella politica, nella critica, soprattutto nel mondo virtuale, provate a leggere qualche portale, qualche blog di opinioni, di critica a vostro piacere. Provateci e poi provate ad applicare al titolare di questo blog queste due definizioni. Leader e capobranco, rimarrete impressionati. Nel mondo virtuale i leader sono ancora meno che nel mondo reale, perché un leader dei “mi piace” e dei retweet se ne frega, non ne ha bisogno per affermarsi, per esistere.

I capibranco invece sono lì, a fare la contabilità dei follower e dei “like”. E quando non ne hanno abbastanza, non ci mettono molto. Basta alzare la posta, il livello dello scontro. Basta trovare una nuova vittima da indicare al branco.

Perché anche questo è tipico del capobranco, anzi, del branco. Senza un nemico, vero o presunto, non esistono e non hanno scopo. Però, cari capibranco, una cosa; non illudetevi mai di essere lupi, al massimo siete i capi di un branco di sciacalli.

Marco Proietti Mancini

Sono del 1961, quindi ho fatto tutta la vita in discesa (nel senso che non ha fatto altro che peggiorare). Scrivo da sempre, pubblico da poco e mi domando continuamente “ma chi me l’ha fatto fare?” Mi trovate qui, mi trovate su Facebook, mi trovate in libreria con “Da parte di Padre”, “Roma per sempre”, “Gli anni belli” e l’ultima creatura “Oltre gli occhi”. Ma tranquilli, se non mi trovate voi vi verrò a cercare io e scriverò di voi nel prossimo romanzo. Poi non vi lamentate se vi riconoscete nella parte del brutto e cattivo. “Tiri Mancini” è il mio personale terrazzino sul mondo, che di balcone famoso in Italia ne abbiamo già avuto uno e il padrone del balcone non è che abbia fatto una bella fine. Quindi – per chi passa e si ferma – preparatevi a gustare un panorama diverso da quello che vi mostrano gli altri, almeno io ci proverò, a farvelo vedere dal lato Mancini. Che fine farò io? Dipenderà da voi.