“Non esiste grande ingegno senza un briciolo di follia” (Seneca)

La Follia. Iniziamo con una citazione colta: nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit (non è mai esistito un grande ingegno senza un po’ di follia). Lo scrive, richiamandosi ad Aristotele, Seneca nei suoi Dialoghi, precisamente nel libro intitolato De tranquillitate animi. Non è semplice stabilire sino a che punto tale assunto abbia effettivo fondamento. Tempo fa uno psichiatra irlandese, Michael Fitzgerald, aveva sostenuto (e immaginiamo non fosse l’unico a farlo) che gli “spiriti superiori”non possono non avere in qualche misura un qualche disturbo mentale. Ne conseguì che in oltre 30 anni di attività Fitzgerald diagnosticò l’autismo e la sindrome di Asperger a circa un migliaio di persone, tra cui Mozart e Beethoven.

La storia della musica offre innumerevoli rappresentazioni della follia, a cominciare da quel tema di origine iberica che sarebbe stato poi riesumato, rielaborato ed elevato dai vari Frescobaldi, Lully, Corelli, Vivaldi eccetera sino ad arrivare a Mauro Giuliani e ad altri compositori a noi più prossimi. Per non parlare, poi, del lungo elenco che sembrerebbe legare la follia alla categoria dei musicisti nello specifico, una galleria piuttosto popolata e certo non limitata al solo Schumann, che ad ogni modo rappresenta il caso di gran lunga più noto e citato.

Si citava Mozart. Ebbene, qualcuno ha voluto interpretare persino come espressione della follia il famoso Adagio introduttivo del Quartetto delle dissonanze, brano inaudito, certo misterioso, che farà dire a Norbert Brainin, primo violino del Quartetto Amadeus: “non bisogna parlarne; è un mistero, un nonsense”. Brano “folle” non meno che denso di significati massonici: quell’inizio così avvolto nel mistero, sconcertante con tutte quelle dissonanze non preparate (e sin qui anche Monteverdi) e che soprattutto non risolvono (con l’accentuato senso di instabilità e incompletezza che ne consegue) non era mica tanto comune, all’epoca. E forse non è peregrino riferire quell’introduzione, come infatti di solito i musicologi fanno, al rito di iniziazione massonica; l’Adagio verrà allora rotto, quasi all’improvviso, da un luminoso allegro di do maggiore: luminoso come la verità che emana; è la luce che percuote chi abbia appena levato dagli occhi le bende dell’ignoranza, fuggendo le tenebre e ricevendo così i lumi del sapere…

Genio. Si deve al Romanticismo il concetto di genio come lo concepiamo oggi, concetto che in tanti rifiutano in quanto considerato sorta di distorsione romantica, categoria sfuggente e facile preda del mito. Tempo fa ho sentito prenderne le distanze, tra gli altri, da Federico Maria Sardelli, sorta di reincarnazione di Vivaldi e compositore egli stesso di musica in perfetto stile vivaldiano. Ma non tutti la pensano in questa maniera. Non tutti sono dubbiosi o in certi casi persino negatori della categoria “genio”. Sfuggente si, approssimativa forse, ma non di meno autentica. E allora a questo punto occorrerebbe sapere se e quanto il genio sia debitore della follia. Il genio è necessariamente folle? Ovviamente il folle non è necessariamente geniale, ma il contrario invece?

Ora, tra tutto ciò che è stato detto nel tentativo di definire che cosa s’intenda effettivamente per “genio” potrebbe emergere quanto segue: l’uomo o la donna geniale sfugge (perché al di sopra) alle categorie sociali e storiche del tempo in cui vive. Come ha scritto, tra gli altri, Harold Bloom, critico letterario americano oggi tra i più celebri, personalità quali Dante, Cervantes o Shakespeare appartenevano alla loro epoca eppure ne erano al di sopra. Certamente è un’interpretazione che può essere soggetta a critiche.

Non sono pochi ad aver ragionato su questo tema in letteratura, voglio dire sull’inafferrabilità e sulla verità o meno del genio e sul rapporto con la follia. Tra questi (e che dire, tra i tanti, di Dostoevskij, di Cervantes, di Mary Shelley?) vi è ad esempio Karel Capek, l’autore boemo vissuto a cavallo tra Otto e Novecento che per primo utilizzò il termine “robot” (I robot universali di Rossum, 1921). Ne La vita del compositore Foltyn, l’autore si diverte a istillare il dubbio nel lettore: il giovane Foltyn, il musicista protagonista dell’incompiuto racconto, è un genio o un cretino? Un genio o un folle? Oppure un folle genio? Nel racconto, Foltyn si crede genio, millanta o forse si atteggia a tale perché non ne è affatto certo? Fatto è che non riuscendo a conseguire i risultati sperati, il nostro protagonista piomberà nella pazzia.

Consigliamo vivamente questo testo riedito da Skira pochi anni or sono. Non offrirà risposte definitive (tantomeno saprà darne chi scrive), confermerà semmai i dubbi iniziali: definire il genio e, in certa misura, definire la follia, sono operazioni tutt’altro che semplici e tutt’altro che esenti da contraddizioni. Ciò che, d’accordo, sprofonda nell’ovvio; ma che un legame tra questi due mondi vi sia è da ritenersi, se non del tutto pacifico, quantomeno ragionevole da affermarsi.

Marco Testa

Cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storici e archivistici parallelamente a quelli musicali. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio di Torino e docente presso l’Accademia Corale “Stefano Tempia”, collabora con festival e istituti di ricerca. Autore di saggi e articoli, lavora presso l’Archivio di Stato di Torino ed è critico musicale di “Musica – rivista di cultura musicale e discografica” e de “Il Corriere Musicale”.