Non è un paese per laureati: in Italia uno studente su 8 abbandona i corsi

Secondo il Dossier Tuttoscuola relativo al tasso di dispersione scolastica nella scuola pubblica, “negli ultimi 15 anni quasi 3 milioni di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi”. È un dato a dir poco allarmante, che va ad alimentare i già poco rassicuranti numeri sulla disoccupazione (giovanile e non) nella Penisola.

Il dato meno lusinghiero proviene dalla Sardegna, dove risulta esservi il 36% di dispersione scolastica. A seguire, la Sicilia (35%) e la Campania (31%), mentre le regioni più virtuose sono l’Umbria (“soltanto” il 18%) e, a seguire, Marche e Molise (21%). Le grandi regioni del nord non se la passano benissimo: in Lombardia (ma va detto che qui l’istruzione non statale è assai diffusa) si sfiora il 30%, in Piemonte il 28%, un po’ meglio in Veneto (22%) e nel Nord-Est in genere.
Per essere chiari: dati peggiori dei nostri, in Europa, li riscontriamo soltanto in Spagna, a Malta, in Portogallo e in Romania, seppur la dispersione sia un problema che riguarda parecchio anche un paese come la Francia.
Dopo la scuola dell’obbligo (sino ai 16 anni in Italia) assistiamo a un massiccio fenomeno di abbandono scolastico: nell’anno scolastico 2013/14, al terzo anno di corso mancavano all’appello circa 90 mila studenti. Le ricadute sul mercato del lavoro sono evidenti: dati Istat alla mano, chi non ha nemmeno terminato gli studi superiori veleggia intorno al 45% di disoccupazione.
Ma che cosa fanno i ragazzi che abbandonano gli studi superiori (o che non terminano l’università)? A parte quelli che trovano lavoro o seguono corsi di formazione “alternativa”, come sostiene uno studio patrocinato dal Miur, molti di questi confluiscono nella categoria dei cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training), vale a dire quei ragazzi tra i 16 e il 29 anni che non lavorano, non studiano, né fanno apprendistato. La loro percentuale si aggira intorno al 23%. E questo ci costa parecchio, dice Confindustria: circa 32, 6 miliardi di euro l’anno.
Andiamo invece a dare un’occhiata al tasso di passaggio all’Università dopo le scuole superiori. Negli ultimi quindici anni si è registrata una progressiva discesa verticale: se ai primi del Duemila il numero delle matricole oscillava, ogni anno, tra le 320 e 330 mila, nell’anno accademico 2014/2015 sono state registrate solamente 265 mila immatricolazioni. In Italia meno della metà dei ragazzi appena diplomati scelgono di iscriversi all’università dopo la maturità (49,1%). Ma non è ancora questo il dato che allarma, dal momento che sino a qui rientriamo ancora nella media OCSE. Il problema, ancora una volta, riguarda il tasso di abbandono durante i corsi, per cui il numero di laureati in Italia è oggi tra in più bassi d’Europa: con il 13,8% di laureati nella popolazione in età compresa tra i 25 e i 64 anni, ci posizioniamo infatti al terzultimo posto.
Guardiamo infine l’andamento Nord-Sud. Dai dati disponibili per l’a.a. 2014/15 risulta che i ragazzi proseguono gli studi all’università per lo più nel Nord-Ovest (52,5%), poi nel Centro (51,1%), Nord-Est (50,8%), Sud (47,1%) e infine nelle isole (42,3 %). Questi dati ne nascondono però un altro: cioè che uno studente su quattro nato in Sardegna o in Sicilia sceglie di iscriversi nelle università del Centro o del Nord, contribuendo a un’economia e a un sistema che non è piu quello di appartenenza, nella convinzione che altrove vi siano possibilità maggiori, una offerta formativa più ampia, un clima più internazionale e meglio integrato nel sistema Europa (come entità culturale prima ancora che politica). Tale questione emerge anche tra gli studenti del Mezzogiorno, dove sono soprattutto molisani e lucani a scegliere di iscriversi nelle università delle altre regioni e, al nord, tra gli studenti della Val d’Aosta (questi ultimi tre casi sono tuttavia da mettere in relazione a un’offerta formativa assai limitata nelle rispettive regioni).

Marco Testa

Cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, vive e lavora a Torino. Archivista-storico e musicologo, lavora principalmente per l’Archivio di Stato del capoluogo piemontese. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio “G. Verdi” di Torino, è docente dell’Accademia Stefano Tempia (storia della musica/guida all’ascolto) e collabora con festival e istituti di ricerca. È autore di pubblicazioni d’interesse storico e musicologico.