Non chiamateli Talent Show

Quando ero giovane, ma giovane giovane, quindi ero ragazzino, la televisione era cosa diversissima da quello che c’è ora nei salotti e non solo nei salotti delle case italiane. Partiamo da qui.
Era diversa sotto ogni punto di vista e accomunare la televisione degli anni 60 con quella di ora ha lo stesso senso di accomunare un carretto a cavalli con un treno ad alta velocità. In comune non c’è più nulla, né la tecnologia né la collocazione nelle case (e non solo nelle case), né – meno che mai – sono confrontabili i contenuti.
Soprattutto si è invertita la relazione tra società e televisione. C’era un tempo, le origini, in cui quel che succedeva nella società, se era abbastanza rilevante e significativo, andava in televisione. Adesso invece è la televisione che costruisce fenomeni, che nascono in televisione per diventare poi società, cambiandola, creando modelli, generando ambizioni. Gloriandosi – gli autori televisivi – di aver recepito in anticipo delle tendenze, delle “novità”. Sbagliato, non li avete recepiti in anticipo, ne siete stati i creatori. A meno che non si voglia considerare Dio (anche degli dei in sedicesima come voi) come un “anticipatore” o uno scopritore dell’universo.

In pratica da una società che ha inventato la televisione siamo arrivati a una televisione che sta reinventando la società, facendoci passare per “normali” modelli che fuori da uno schermo sono spesso inapplicabili, o applicabili sono pagando un prezzo enorme in termini di forzatura di modelli “naturali”.
Per questo trovo irritante e falso definire “reality” delle trasmissioni che di “reale” non hanno nulla, perché non rappresentano nessuna realtà esistente nella natura sociale. Per questo trovo ancora più irritante che vengano definiti “talent” quegli spettacoli che si propongono di farci scoprire persone dotate di un talento che – senza l’intervento miracolistico e vivificante della televisione – rimarrebbero soffocati nella massa informe di chi talento non ha.
Usciamo da questo equivoco, intenzionalmente generato da chi vuole contaminare con logiche di interesse economico anche un mondo, quello dell’arte, che dovrebbe considerare il guadagno come un effetto secondario rispetto alla creazione del bello, perché l’arte – e non solo l’arte, anche la buona cucina – quello sono come pulsione primaria dell’uomo, espressione di bello ed emozioni. Il fatto che da queste manifestazioni ci sia qualcuno che debba guadagnarne è ricaduta, non obiettivo primario.
Chi ha talento, chi ha dentro sé le qualità e le doti per creare il bello, non dovrebbe aver bisogno della televisione per emergere, ma dovrebbe riuscire a farlo – in un mondo di modelli sani e naturali – attraverso canali che sono nella natura del suo talento.
Sei un cantante e hai talento? Allora fai scuola di canto per affinare la tecnica, esibisciti, investi su te stesso, lavora e impegnati, spera che ci sia un talent scout che ascoltandoti si accorga di te e percepisca le tue potenzialità artistiche PRIMA che le tue possibilità di garantirgli un ritorno economico, e decida di produrti.
Lo so, i talent scout non esistono più, in nessun campo. Costano troppo e servono a un modello vecchio che la televisione ha spazzato via. Perché la televisione ha invertito il modello, ma il talento lo crea, imponendolo. La televisione non fa emergere dalla massa, ma crea ancora più massa, la massa di chi – che abbia talento o meno – affolla audizioni giocandosi la sua opportunità in un provino di 3 minuti, che sia per cantare, per cucinare o per recitare.
Poi, magari, succede anche che chi vinca quel “talent” il talento in effetti ce l’abbia. Ma di tutti gli altri, quelli che arrivano dal secondo posto in poi e se ne vanno con le tasche piene di parole consolatorie e complimentose, che ne succede? Possibile che di sedici, diciotto o dodici partecipanti, il talento lo abbia uno solo e per gli altri sia stato solo uno spreco di tempo ed energie?
No, non è così. E’ che la televisione non scopre talenti. Li crea, a tavolino, scientificamente. Con un’unica logica nel farlo, la misura di quanto quel “talento” restituirà agli sponsor, non in termini di espressione artistica, ma solo in banconote e guadagni.
Non c’è nulla di più sbagliato che lasciare che l’arte, qualsiasi arte, diventi misurabile solo in termini economici, diventi solo un metodo di affari. Ecco perché la televisione uccide l’arte e uccide il vero talento, quello che emerge con la fatica e l’applicazione quotidiana. La televisione affossa il talento, creando dei talenti artificiali. A volte danneggiando dei veri talenti, magari ancora solo potenziali, ma che certamente dopo l’eliminazione non troveranno più spazi né possibilità, perché se sei stato eliminato da un “talent”, la correlazione è evidente, vuol dire che il talento non ce l’hai.

Marco Proietti Mancini

Marco Proietti Mancini

Sono del 1961, quindi ho fatto tutta la vita in discesa (nel senso che non ha fatto altro che peggiorare). Scrivo da sempre, pubblico da poco e mi domando continuamente “ma chi me l’ha fatto fare?” Mi trovate qui, mi trovate su Facebook, mi trovate in libreria con “Da parte di Padre”, “Roma per sempre”, “Gli anni belli” e l’ultima creatura “Oltre gli occhi”. Ma tranquilli, se non mi trovate voi vi verrò a cercare io e scriverò di voi nel prossimo romanzo. Poi non vi lamentate se vi riconoscete nella parte del brutto e cattivo. “Tiri Mancini” è il mio personale terrazzino sul mondo, che di balcone famoso in Italia ne abbiamo già avuto uno e il padrone del balcone non è che abbia fatto una bella fine. Quindi – per chi passa e si ferma – preparatevi a gustare un panorama diverso da quello che vi mostrano gli altri, almeno io ci proverò, a farvelo vedere dal lato Mancini. Che fine farò io? Dipenderà da voi.