Morto il coniglio, resta “Alice disambientata”

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“C’è un posto nella casa felice solo se dici di sì. Siamo venuti ad urlare nella casa felice.”
È una voce piatta quella che lascia le pareti di cartone di una piccola sagoma di casa. Una grande luce l’avvolge dall’interno, fuoriesce dagli spiragli e dai fori aperti nella carta. Quando però il parlare meccanico si esaurisce in una vecchia canzone, ne viene fuori solo un coniglio. Bianco, occhi rossi. Ma allora dov’è Alice? Mancano punti di riferimento, qualcosa che non va. Così veniamo misteriosamente immersi nel dramma psicologico di “Alice disambientata”, di e con Ilaria Dalle Donne, da un testo di Gianni Celati, al Teatro Due di Roma.

Spettacolo conclusivo della Rassegna Teatrale A Roma! A Roma!, “Alice disambientata” è da intendersi come una performance. La recitazione parlata è totalmente assente. Sono i movimenti, ritmati a tempo di musica, a costruire una comunicazione. Il legame che creano si trasmette per mezzo di un sonoro sintetico, fatto di ritornelli elettronici. Alice si mostra in questa alienazione acustica: è una ragazza che nell’allenamento fisico, una lotta a vuoto, si impadronisce dello spazio. Quest’ultimo, paragonabile ad un cortile industriale, è un’area di metallo ed asfalto; un ring di fari accecanti. Rosse parole scorrono su un nero schermo led anni ’80: sono sconnesse, macinate, riscritte; testi musicali e filastrocche. Qui Alice è perduta. Non c’è la Natura e sono assenti tutte le allegoriche meraviglie di Carroll. L’angoscia è racchiusa in questo vuoto, tranciato dalle gracchianti esplosioni di rumori sintetici. Sono le grida di un esercito di macchine sferraglianti, generatrici di disagio, autrici della perdita di consapevolezza spaziale. Braccata nella distopia, Alice combatte in un’arena virtuale, con le reazioni comandate di un videogioco della Capcom.
Si è trasformato in questo il paese delle meraviglie? La vecchia follia è svanita sotto il peso delle ombre. Ora esiste solo una landa urbanizzata, vuota, divorata. Disambientata. Una voce priva di emozioni lascia echeggiare, in una ripetizione continua, la più sconvolgente delle verità: “Il coniglio è morto. Il coniglio è morto. Sono le cinque, nessuno è stato invitato.”

Il senso di perdita ed il disagio sensoriale vengono comunicati senza intoppi. La resa scenica trova orecchie ed occhi attenti; complice il gusto contemporaneo, sempre ansioso di pascersi di queste sensazioni. Ricerchiamo un perturbante, generatore dell’illusione di una spazialità confusa ed illimitata; una versione dell’Infinito leopardiano, fedele accompagnatrice della civiltà consumista. È un tipo di spaesamento che piace, forse perché ricorda la droga. Eppure, in “Alice disambientata” non si tocca il culmine di questa percezione. Forse una scelta di regia. Si ha come la sensazione di una mancanza: pur essendo densa nei contenuti, la performance porta ad attendere un attimo culminante che non giunge mai. Se ne ricava l’impressione di trovarsi di fronte ad un prodotto non ancora completo, in rodaggio. Di certo dignitoso, ma non al suo massimo. È una legge vecchia come il mondo: il pubblico vuole sempre lo scoppio finale; il morto che piomba disteso sul palco; il dio che appare illuminando.
Nonostante questo, la muta verità dello spettacolo affonda comunque nelle menti, lasciando una pillola d’angoscia. Nell’arrivare a noi, è leggera come lo zompettare svagato del coniglio bianco, saltellante per il palco.

L’autrice e performer, Ilaria Dalle Donne, ha rilasciato al termine dello spettacolo una breve intervista collettiva, interagento col pubblico. Clicca qui per saperne di più.

Gabriele Di Donfrancesco
@GabriDDC

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