Lo sfoggio dell’apparenza, la mortificazione della sostanza

Mai come in questo periodo, ogni anno, questa verità, in parte anche abusata, mi rimbomba nella testa. Periodo di luci e lustrini, di spese e gioie prenatalizie condite da fiere della media e piccola editoria, definizione già ghettizzante di per sé. Chi stabilisce cosa sia piccolo, medio o grande? Le vendite? Forse, non vedo altri parametri validi, francamente. Chi c’è stato, o tornato, ne è rimasto entusiasta. Io, invece, quest’anno sono rimasto a casa. Ho osservato solo da lontano questo triste carrozzone di sorcina memoria, in cui re, regine e fanti vanno avanti senza popolo che li acclami o semplicemente li veda. Perché questo è fare editoria oggi: operare in un settore di nicchia, con un pubblico modestissimo che si veste a festa, forse, soltanto in queste grandi occasioni in cui è necessario apparire, esserci senza troppo essere sul serio. Editori che acquistano spazi espositivi con la consapevolezza che, nella migliore delle ipotesi, incasseranno giusti giusti i denari per ripagare l’investimento; e se ciò avverrà, viva la Madonna dell’Immacolata (che anche questa, nel periodo in corso, ci sta tutta). Autori che, non esclusi i big, continuano a presentare davanti a un pubblico sparuto e annoiato, apertamente disinteressato, ma che insistono nel farlo perché così dev’essere, perché bisogna farlo, bisogna esserci. Una filiera produttiva ed economica, quella editoriale, che non ha più margini di ricavo per nessuno degli elementi che la costituiscono, editori in primis, e che, allo stato attuale delle cose, non fa intravedere alcuna possibilità di mutamento, né evolutivo né involutivo, che pur mutamento sarebbe. E una politica che della cultura, e della diffusione libraria in particolare, se ne frega altamente, da sempre, per poi riempirsi la bocca con triti e ritriti paroloni di circostanza nel momento in cui si accendono le luci del carrozzone. Quello romano, quello della piccola e media editoria. Quello al quale, mi dice qualcuno, bisogna esserci. E perché mai? Per spendere denaro e tempo a inseguire l’apparenza, per mantenere uno statu quo che solo gli stolti vorrebbero mantenere tale? Per celebrare un settore moribondo e che si parla addosso, che decide di svestire il pigiama dell’ammalato e indossare lo smoking della festa, ma andando pur sempre in giro con immani metastasi al suo interno? Io credo che in questo periodo ci sia davvero poco da investire in stand e apparenza, almeno finché restano a pagamento e a prezzi così inaccessibili. Che le poche risorse a disposizione siano impiegate in qualità libraria e novità d’intenti, piuttosto che per addobbare il carrozzone che va avanti da sé, con le regine, i suoi fanti, i suoi re… Palco per i soliti e dissennati politici da baraccone. E per editori yuppie, ma che degli yuppies di Agnelliana memoria non posseggono minimamente i quattrini. Perché dicono che… più libri, più liberi, ma a me sembra che finché questi più libri continueranno a essere solo quelli stampati, non quelli acquistati e letti, qua siamo tutti un po’ meno liberi. Editori e autori. O entrambe le cose assieme.

Alessandro Vizzino

Alessandro Vizzino (Latina – 1971) è scrittore ed editore. Ha pubblicato i romanzi: SIN (MJM Editore, 2011), La culla di Giuda (Edizioni DrawUp, 2012), TrinacrimeStoria di un pentito di mafia (Imprimatur Editore, 2014). Ha vinto numerosi premi letterari, sia come narratore sia in veste di poeta. Alcuni suoi racconti sono stati inseriti in diverse raccolte antologiche.