L’eccezione

Conversando con un caro amico – conversazione virtuale, ma non per questo meno diretta e sincera – ci siamo ritrovati a ripercorrere ancora una volta l’argomento spinoso di quello che il mondo editoriale esprime. Già, anche questo amico naviga in questo procelloso mare di libri e pubblicazioni; vi prego, non ditemi anche voi che dovrei cambiare amicizie, ci pensa già mia moglie.
Però tra me e il mio amico c’è una differenza, che mentre io vivo questo mondo con un disincanto ormai prossimo al cinismo, lui ancora di certe logiche e sistemi non riesce a farsene ragione. E’ tutto un farsi domande (che ovviamente non hanno risposte sensate) e sollevare obiezioni. Lui peraltro è stato molto carino nei miei confronti, conosce la mia produzione fino all’ultima riga – come io conosco la sua – e sostiene che sia di qualità e spessore.
Quindi la sua domanda, spesso in occasione di uscite di libri e autori che entrambi conosciamo come esponenti di certa narrativa di facile consumo, è “ma cazzo, Marco! Ma perché quelli come te e gli editori come Pippo e Pluto dovete fare una fatica immane e poi invece arriva Paperino/a e pubblicano con i Big e te li trovi su ogni scaffale perfino di supermercato, tra i caciocavalli e le soppressate?”
Io ho provato a dargli una risposta che avesse un senso, ma visto che pare non essersi convinto, questa risposta provo a condividerla con voi. Però come prima cosa la spersonalizzo; l’unico modo che conosco per dare a questa spiegazione un valore che non sia autoreferenziale.
Il fatto è che c’è chi si ostina – come il mio ottimo amico – a considerare l’ambiente editoriale e l’ambiente letterario la stessa cosa, chi continua – come il mio ottimo amico – a pensare che il fatto di scrivere libri e pubblicare libri siano (o debbano) essere governati da logiche di tipo artistico, o quantomeno qualitativo.
No, non è così, rassegnatevi. A parte alcune – rare – voci del mondo editoriale che “conta”, le logiche e le dinamiche che portano alla scelta dei titoli da pubblicare sono solo ed esclusivamente in funzione del “quanto venderanno”.
Ma badate bene, questa per me non è una accusa, né tantomeno una critica, solo una rassegnata constatazione, una spietata consapevolezza. Peraltro contenente una assoluzione; perché per me l’utopia e l’errore è considerare – non ho ben capito perché – il mondo editoriale diverso e svincolato da qualsiasi altro “mondo” per il quale invece certe domande non vengono più poste.
Se le sale cinematografiche sono invase da film spazzatura, se gli schermi della televisione sono riempiti da fintoreality e pseudotalent, se le radio trasmettono tutte – più o meno indifferentemente – le stesse canzoni, più o meno belle, ma certamente tutte di “facile ascolto”, ma perché qualcuno si aspetta che invece gli editori dovrebbero “investire” sulla qualità, privilegiandola rispetto alla quantità delle migliaia di copie vendute?
Non è questione di rassegnazione. Mettere del sesso in copertina (è solo un esempio) fa vendere più che pubblicare Anais Nin, che del sesso è maestra, ma di questo bisognerebbe “convincere” il lettore del supermercato e dell’autogrill (tra i due principali canali di vendita di libri, per numero di copie vendute).
Viviamo in un mondo interamente regolato dal profitto a breve termine, dove tutte o quasi tutte le aziende hanno come ossessione quella del fatturato al massimo a trimestre, in cui la misurazione del “successo” è settimanale, mensile, le proiezioni di crescita si fermano al massimo all’anno su anno.
Siamo nel mondo schiavo delle logiche del “rating”, del voto assegnato in base a parametri solo ed esclusivamente finanziari, economici, perché un editore “sano” dovrebbe scegliere di seguire logiche illogiche diverse da queste che governano il funzionamento di tutto?
La risposta potrebbe essere che – per rifare il parallelo di prima – i cinema sono sempre più vuoti e chiudono le sale, i programmi televisivi sono sempre meno seguiti e le radio che chiudono sono più di quelle che aprono. Ma è tutta roba che si misura in anni, invece il profitto si misura al fatturato che si fa questo mese.
Il problema – così dicevo al caro amico e così provo a dire a voi – non è il “mondo editoriale”; il problema è molto, ma molto più esteso e vasto. E’ sociale. E’ di valori che si danno al tutto, di cui i libri sono una minimissima parte.
Ci sono eccezioni? Ma certo che ce ne sono. Certissimo. Case editrici medio piccole o medio grandi che pur conoscendo questa realtà, questa regola, la usano e non se ne fanno usare, non ne diventano schiave. Usano i profitti di oggi per investire – veramente – nel medio e lungo termine, su autori e testi di qualità. Anche al cinema ogni tanto scappa fuori il gran bel film, anche in televisione esce fuori il miracolo del programma valido.
Sono eccezioni, e le eccezioni, come si sa, confermano le regole.

Marco Proietti Mancini

Marco Proietti Mancini

Sono del 1961, quindi ho fatto tutta la vita in discesa (nel senso che non ha fatto altro che peggiorare). Scrivo da sempre, pubblico da poco e mi domando continuamente “ma chi me l’ha fatto fare?” Mi trovate qui, mi trovate su Facebook, mi trovate in libreria con “Da parte di Padre”, “Roma per sempre”, “Gli anni belli” e l’ultima creatura “Oltre gli occhi”. Ma tranquilli, se non mi trovate voi vi verrò a cercare io e scriverò di voi nel prossimo romanzo. Poi non vi lamentate se vi riconoscete nella parte del brutto e cattivo. “Tiri Mancini” è il mio personale terrazzino sul mondo, che di balcone famoso in Italia ne abbiamo già avuto uno e il padrone del balcone non è che abbia fatto una bella fine. Quindi – per chi passa e si ferma – preparatevi a gustare un panorama diverso da quello che vi mostrano gli altri, almeno io ci proverò, a farvelo vedere dal lato Mancini. Che fine farò io? Dipenderà da voi.