La letteratura femminile non vince i premi letterari

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Il Guardian ha recentemente riportato uno studio sui sei premi letterari più importanti – Pulitzer, Man Booker, National Book Award, National Book Critics’ Circle Award, Hugo e Newbery – che dimostra la predominanza di vincitori maschi negli ultimi 15 anni. Non solo. Secondo l’autrice Nicola Griffith, l’elevata incidenza maschile si annovererebbe anche tra i protagonisti dei romanzi premiati.
Ad esempio, il Man Booker, tra il 2000 e il 2014, è stato vinto da 9 libri scritti da uomini sugli uomini, 3 libri scritti da donne sugli uomini, 2 libri scritti da donne su donne e 1 libro scritto da una donna su entrambi i sessi. Il National Book mostra un risultato simile: 8 libri di uomini su uomini, 2 libri di donne su uomini, 1 libro di un uomo su entrambi i sessi, 3 libri di donne su entrambi, e due libri di donne su donne.

A pochi giorni dalla proclamazione dei cinque finalisti del Premio Strega, vediamo se i dati della Griffith sono applicabili anche in Italia. Partiamo proprio dallo Strega. Prendendo in esame lo stesso periodo, risulta che negli ultimi 15 anni solo due donne hanno vinto il premio − Margaret Mazzantini con Non ti muovere (2002) e Melania Mazzucco con Vita (2003) – e che la maggioranza di libri vincitori ha come protagonista un personaggio maschile. Il Premio Campiello mostra una panoramica leggermente diversa con le sue 5 scrittrici vincitrici, e i suoi 5 romanzi che raccontano di donne, un paio dei quali scritti da uomini (La vedova scalza di Salvatore Niffoi e L’amore graffia il mondo di Ugo Riccarelli), anche se non ci si avvicina nemmeno alla metà. Questo significa che i dati raccolti dall’autrice, forse, non sono privi di fondamento.

Commentando le statistiche, la Griffith scrive: “O questo significa che le scrittrici si autocensurano, o che chi giudica il merito letterario trova le donne spaventose, sgradevoli o noiose. Di certo i risultati mostrano che le prospettive delle donne sono considerate non interessanti o non meritevoli. Sembra che le donne abbiano i pidocchi letterari.

Sebbene forse con eccessiva severità, Nicola Griffith solleva un problema su cui occorrerebbe ragionare, così sintetizzabile: se la voce delle donne non è ascoltata, parte dell’esperienza del mondo non può essere appresa né costruita.

Da quando “letteratura” non è più un sostantivo femminile? Il femminile, in letteratura, ha perso il suo valore, o le donne, negli ultimi anni, hanno scritto poco e/o male?
Questione impossibile da generalizzare a tal punto, ancor più in un contesto ristretto come quello dei premi letterari che, secondo i più, sono truccati.

Qualche mese fa − aiutata da Virginia Woolf − ho scritto di come sia cambiato il ruolo della donna-scrittrice che, dalla seconda metà dell’Ottocento e ancor più nel Novecento, ha distolto lo sguardo annoiato dal giardino di casa per rivolgerlo al mondo, scrivendo di esso. Le grandi scrittrici di allora hanno vissuto in un contesto di profondi cambiamenti sociali, tra guerre, totalitarismi e un’espressione femminile da rivendicare. Oggi le donne vivono tra le guerre, ma per le più sono guerre lontane; vivono sotto i totalitarismi, ma questi impongono loro il silenzio; e l’espressione femminile è già stata rivendicata e, grazie a internet, viene ampiamente esercitata.

Tutto questo discorso sulla profondità della scrittura varrebbe a qualcosa se solo considerassimo i premi letterari come unico indicatore di qualità della letteratura oggi.
Leggiamo piuttosto libri di uomini sulle donne, libri di donne sugli uomini, e libri di uomini e donne su chi ancora non sa se è l’uno o l’altra, perché la letteratura è un sostantivo che non ha genere.