Il caso Spotlight: il giornalismo investigativo spiegato in un film

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Tredici anni fa viene documentata dal Globe una rete di preti pedofili della diocesi di Boston. Walter Robinson (premio Pulitzer), Sacha Pfeiffer, Mike Rezendes, Matt Carroll, capeggiati da Martin Baron denunciano i soprusi della Chiesa, che aveva registrato 150 religiosi pedofili. Nonostante le migliaia di vittime, la denuncia si risolve in una transazione tra il reverendo e le vittime. Gli atti vengono chiusi. Non che a Boston tutto questo fosse una novità. Era importante mantenere alto il nome della Chiesa, e lo si faceva nascondendo i suoi lati più oscuri. Ma questi cinque giornalisti non si arresero, e vollero costringere la Chiesa a dichiarare mea culpa in pubblico. Robinson spiega come l’indagine sia proseguita grazie a Martin Baron. Direttore del Globe dal 2001, il primo non appartenente alla nicchia degli editor della testata ad essere stato scelto. Veniva dalla Florida, aveva lavorato al New York Times, grande lavoratore che viveva per il giornalismo, con i suoi modi di fare un po’ fuori dal comune. Dal 2012 dirige il Washington Post. Con difficoltà iniziali ad inserirsi, a causa della mentalità di Boston, che considera coloro che vengono da fuori, non capaci di capire, di fare. Per fortuna Robinson ebbe l’intelligenza di ascoltare il nuovo direttore ed andargli incontro, dando vita ad una grande collaborazione.

A la Repubblica Robinson parla della sua sorpresa rispetto ai consensi che ha ottenuto Spotlight, incredulo che potesse interessare al grande pubblico: “E invece ne è venuto fuori un racconto fedele della nostra inchiesta sulla rete di preti pedofili della diocesi di Boston. Direi di più. Spotlight spiega la ragione del perché fare il giornalista può dare senso a un’intera vita.” Ha sempre creduto che a nessuno potesse interessare il modo in cui le notizie venissero scovate, discusse e poi pubblicate, ma a quanto pare si sbagliava. Ama il fatto che il film faccia trapelare come per un giornalista il suo lavoro rappresenti il senso della vita, sapendo che grazie alla sua documentazione molte atrocità potrebbero non ripetersi.
Sottolinea un paio di differenze che ha riscontrato nel film, ben lontane dalla realtà del “Globe”: il modo di vestire di Michael Keaton, l’attore che interpreta lo stesso Robinson. Infatti, Walter afferma di non aver mai indossato camicie botton down o pantaloni con la piega; in più, la democrazia nelle redazioni non è neanche contemplata. Nel film si vede come le decisioni vengano prima discusse da tutti, invece Robinson spiega come andava nella realtà: il reporter poteva parlare, discutere con il caporedattore quando non erano d’accordo, ma alla fine si agiva secondo quanto diceva il capo.

Michael Keaton, con quaranta film alle spalle, spiega che, oltre alla recitazione, è appassionato anche di giornalismo: “Da bambino rubavo il giornale a mia madre, ma confesso: era solo per leggere lo sport”, dichiara. Poi ha iniziato a leggere i reportage del Rolling Stones poco dopo l’adolescenza, che ai tempi rappresentava il più duro tra i magazines di quella generazione ribelle. Ha potuto approfondire questa passione in film come Cronisti d’assalto di Ron Howard, con la miniserie Live from Bagdad, ed infine con Il caso Spotlight. Per lui è importante sentire di poter cambiare qualcosa, qualunque sia il lavoro che si svolge. In questo caso è onorato di interpretare uno dei giornalisti che ha fatto la differenza in quegli anni e di poter diffondere il loro lavoro attraverso la sua recitazione. Nonostante sia cattolico, e venga da una famiglia molto legata alla Chiesa, non sente di essere andato contro il suo credo, in quanto sia lui che i suoi famigliari credono che sia un film necessario, per far conoscere la verità alle persone. Così esprime la sua ammirazione per Papa Francesco: “Credo stia spingendo un macigno tutto in salita. Lo ammiro per quel che dice sull’economia globale, per l’attenzione che mette nei confronti dei poveri. Quando ha detto ‘Chi sono io per giudicare?’ è stato davvero grande. Certo, è facile dire che dovrebbe fare di più. Ma è alla guida di una vecchia e potente istituzione, e nessuno prima di lui aveva fatto tanto.

Un film denuncia, che spiega il lavoro che vi è dietro una ricerca che ha coinvolto cinque grandi giornalisti, 600 articoli (che valsero il Pulitzer al “Globe”) e una voglia irrefrenabile di verità. Questo è il film, nelle sale dal 18 febbraio, che ha riportato alla luce un lavoro che non va dimenticato.

Redazione

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