Gianluca Barbera: “Nel mio romanzo i veri truffatori sono i truffati”

di Federica Colantoni, in Interviste, Letteratura, del 20 Giu 2016, 09:30

Intervistiamo Gianluca Barbera, editore di Melville edizioni e autore di La truffa come una delle belle arti (Aliberti Compagnia Editoriale), il quale scherzando si dichiara imbarazzato rispondendo alle domande, poiché si accorge che potrebbe «sostenere una tesi ma anche il suo contrario con la stessa convinzione». E dato che il suo libro parla di truffe, di inganni, di “falsità”, Barbera racconta a Cultora quale sia questa falsità che pervade il mondo moderno e la letteratura: «Non c’è falsità più grande di sostenere di essersi formati le proprie opinioni sulla base di un ragionamento. La verità è che le nostre opinioni si fondano su pregiudizi, su gusti e inclinazioni. Solo a posteriori ci inventiamo delle argomentazioni per puntellare le nostre scelte».

Dal 1842 fino ad arrivare ai giorni nostri, il libro La truffa come una delle belle arti racconta le vicende truffaldine della famiglia Lopiccolo che, di generazione in generazione, si è cimentata nell’arte della truffa. Cosa la intriga di questo tema tanto da renderlo parte di un romanzo?

Che c’è di più bello, di più artistico di una truffa ben congegnata, dove tutto s’incastra alla perfezione come nella trama di un buon romanzo giallo o come in una macchina di Goldberg? La truffa è anche un modo per far venire a galla il non detto, smascherare l’ipocrisia. Tutti passiamo la vita a fingere. A mostrare in pubblico un volto fasullo. “Siamo talmente abituati alle bugie che la verità ci offende”. Cioran ha scritto: “La storia non è che una sfilata di falsi assoluti, di templi innalzati a dei pretesti”.

L’uomo, eterno truffatore e truffato, nel corso della sua vita può vivere in una parabola che lo tramuti ora nell’uno ora nell’altro. E’ così anche nel suo romanzo o il truffato è destinato alla fissità della sua condizione?

I truffatori del mio romanzo sono delle persone migliori dei truffati, come spesso accade nella vita. I perseguitati di oggi sono i persecutori di domani. Gli sfruttati di oggi gli sfruttatori di domani. È la storia a insegnarcelo. Quasi ogni rivoluzione è finita così. Nel mio romanzo i veri truffatori sono i truffati. O chi dà loro la caccia. Tutti accomunati dall’ipocrisia. E che cos’è l’ipocrisia se non un imbroglio? E per di più il peggiore che io conosca. Al punto che la introdurrei come reato nel codice penale. I Lopiccolo sono invece di una trasparenza e generosità esemplari. Dunque la domanda che aleggia per tutto il libro è: si può vivere al di fuori della legge e tuttavia essere delle persone virtuose? Ma La truffa come una delle belle arti è anche un romanzo sulla ricerca della felicità. Fin dove è lecito spingersi per ottenere ciò che si vuole, per provare a essere felici?

Quanto peso si dà alle vicende storiche?

Poco. Cioè il contesto è reso con molta accuratezza, ma è accessorio. Mi premeva di più il lato filosofico. Fare una parodia della società. Dopotutto che cosa c’è di più farsesco del modo in cui è organizzata la nostra società? L’intera storia dell’uomo è un bluff. Di tutto questo (e di molto altro) si occupa il mio romanzo. Guardo a modelli come Jacques il fatalista di Diderot. O a Voltaire. Cervantes. De Quevedo. O al Lazarillo de Tormes. A Boccaccio. A certa letteratura sudamericana: Borges, Onetti, Arlt. A Donald Barthelme, John Barth.

Il libro è uscito da poco ma lei è già stato definito da Gian Paolo Serino come uno “scrittore con il passo del classico”. Una grande lusinga, ma lei in qualità di editore (e scrittore) azzarderebbe ad attribuire questa qualità, che presuppone un’aura di eternità, a uno scrittore contemporaneo?

Io non ho paura delle parole, altrimenti farei un altro mestiere. Se lui ha scritto così, qualcosa di vero ci deve essere. E comunque credo che per “classico” si possa intendere una forma estetica riconducibile a un canone, a una tradizione. Non so quanto sia una questione di durata. Credo che di nessuno della nostra generazione resterà traccia. Non perché non siamo bravi. Ma perché è accaduto qualcosa che ha cambiato le regole del gioco. Velocità, cultura di massa, eccesso d’informazione e web hanno fatto piazza pulita, cancellato l’idea stessa di “eterno”. Temo che tra meno di un secolo nemmeno di Dante si parlerà più, se non in ambienti elitari.

Come scrive Mozzi in quarta di copertina “cos’è un romanzo, se non un mucchio di bugie?”. A tal proposito, qual è il romanzo, classico e/o contemporaneo, più bugiardo in circolazione, a parer suo?

Ci sono due livelli da considerare. A rigore un romanzo è finzione e dunque un cumulo di bugie. Ma se diamo ascolto a Hemingway per fare buona letteratura è necessario essere sinceri fino all’autolesionismo. Le due cose però non sono in contrasto. Perché la sincerità di cui si parla riguarda il patto che l’autore fa con se stesso e coi lettori. E questo patto ha regole precise e ineludibili: niente trucchi da due soldi, niente menzogne. Di quali menzogne parliamo? Ad esempio, se in un romanzo autobiografico mi ostino a pormi in una luce migliore di quanto non faccia con gli altri personaggi, sto barando. Il lettore se ne accorge. Questa non è arte. Se penso a un libro letto di recente che spicca per sincerità, il primo che mi viene in mente è Works, di Vitaliano Trevisan. Un altro è La preghiera della letteratura di Andrea Caterini. Se guardo indietro, al Novecento, l’opera più convincente è Viaggio al termine della notte di Céline.

Ha da poco lanciato Melville Edizioni, i membri del suo staff sono autori in vari ambiti e insieme state creando un catalogo per lettori fidelizzati. La vostra sembra essere una rivalsa sociale degli scrittori in un contesto (la casa editrice) in cui di solito subiscono la pressione dei professionisti. Conferma?

Capisco, però non mi piace parlare di rivalsa sociale. Sa di frustrazione, d’invidia. Sentimenti che non mi appartengono. Dando vita a questo progetto editoriale semplicemente ci siamo ritagliati uno spazio di libertà. Un lusso. Lavorare in proprio è per alcuni un’esigenza, di certo non un modo per fare soldi. Mi pare comunque che stiamo facendo un buon lavoro. Buone critiche, buona stampa, buone vendite. Piccoli numeri, s’intende. Niente a che vedere con quelli della grande editoria. Sette titoli in tutto, finora. E altri tre in uscita prima dell’estate.

Presentando la nascita della casa editrice Melville, mesi fa dichiarò il proposito di non “subire il gusto dei lettori”. Sta andando nella direzione giusta?

Finora siamo stati coerenti. Nessuno può sostenere che non stiamo mantenendo gli impegni presi. L’esperienza ci ha dato una mano nelle scelte. Un grazie dunque a Davide Bregola, Andrea Caterini, Guido Michelone. E a tutti gli autori finora pubblicati e che pubblicheremo.

Federica Colantoni

Federica Colantoni nasce a Milano nel 1989. Laureata in Sociologia all’Università Cattolica nel 2013, pochi mesi dopo inizia il percorso di formazione in ambito editoriale frequentando due corsi di editing. Da dicembre 2014 collabora con la rivista online Cultora della quale diventa caporedattrice. Parallelamente pubblica un articolo per il quotidiano online 2duerighe e due recensioni per la rivista bimestrale di cultura e costume La stanza di Virginia.