Fabrizio Frizzi e l’eredità del ruolo del conduttore televisivo

La presidente della rai Monica Maggioni e il direttore generale Mario Orfeo si stringono nel cordoglio attorno alla famiglia di Fabrizio Frizzi, icona della conduzione televisiva italiana che ci lascia all’età di sessant’anni, vittima di un’ischemia cerebrale. “L’Eredità” era il programma simbolo del conduttore, ma, ipostatizzando la parola, qual è la sua, di eredità? Come mai le allocuzioni dei conduttori televisivi riscuotono così tanto successo nell’immaginario comune?

Risposta plausibile viene forse dall’opera mimetica che questi mettono in atto: dove i gesti, le parole, le conversazioni, vengono a coincidere con i modi delle “persone comuni”. Quelle che più o meno indaffarate, più o meno stressate, più o meno sole, riescono la sera a trovare un momento di pace sprofondando nel divano e contemporaneamente nei suoni e nelle immagini. Questi, come flussi di coscienza digitale in cui farsi cullare, vengono emessi dalla scatola magica che tutti possediamo, in una ripetizione incantatrice.

Da Mike Buongiorno, a Gerry Scotti a Fabrizio Frizzi, la dinamica è sempre quella di un oggetto virtuale capace di creare consenti unanimi e fondativi, compiendo operazioni anche educative (da rimarcare il fatto che la televisione si è prestata come principale veicolo per l’opera nazionale di unificazione e standardizzazione della lingua, nonché per l’alfabetizzazione di massa della popolazione italiana). I corpi che si muovono nel virtuale sono non soltanto rappresentativi del reale ma anche agenti creatori.

A questo proposito, Concato parla di “rappresentazione mitica”, dove la realtà virtuale è concepita come mondo di simulacri capaci di imporsi sul reale: una realtà fittizia di sogno, che però è vissuta nel tempo della veglia, abilitando una ragionata elaborazione dell’oggetto a distanza. Su questa scia anche la lezione di Bergson: percepire i corpi vuol dire concepirli attraverso il loro duplice sdoppiamento.

Esso è in bilico tra reale e virtuale, nella contrapposizione classica platoniana di immagine e copia o in quella più sofferta e contemporanea di Sé e io rappresentato. La marionetta è l’immagine più adeguata a questa concezione, dove il burattinaio si serve della bambola vestendola di un’intenzionalità corporea che è pre-riflessiva e intrinseca al movimento, di cui l’attore del gesto, il burattinaio, non può avere previa coscienza: qui si innesta la contrapposizione a cui si accennava tra l’umano-organismo biologico e il personaggio-identità. Il corpo si porta sulle spalle i sé virtuali del suo passato, quelle rappresentazioni che non esauriscono l’unità della sua identità e che pure sono imprescindibili.

La televisione ha svolto una funzione analoga – questo da prima dei suoi emeriti successori Twitter, Facebook e Instagram – e strutturalmente diversa; una voce e tanti spettatori, “comunicazione uno-a molti” direbbe Francesco Antinucci in uno dei suoi libri. Ben differente dalla comunicazione molti-a molti che il web produce, eppure punto di partenza inevitabile di queste nuove matrici del reale edificatrici di senso e di nuove significazioni identitarie.

Come la marionetta, la figura dell’avatar, rappresentata nel film omonimo del regista James Cameron (2010) e indagata filosoficamente da Depraz. L’avatar non è “immagine di”; l’avatar di Cameron è stato creato per ibridazione tra DNA umano e DNA autoctono (DNA della popolazione indigena di Pandora). È un perfetto ponte cinestetico tra i due poli, umano e virtuale, grazie al contatto neuronale tra due componenti ribosomiche. E questa è la figura più appropriata alla concezione filosofica di Deleuze, dove il virtuale per avere la sua porzione di realtà deve attualizzarsi, incarnarsi.

Non da ultimo, Mark Hansen in “Bodies of Code” definisce la dimensione del virtuale come potenzialità implicita al reale, che si ridefinisce come un progetto di immaginazione poietica caratterizzante la storia dell’umanità sin dagli albori del suo pensarsi “con” e “attraverso” la tecnica, nel suo progressivo processo di embodiment, del suo muoversi nella spazialità e temporalità, aprendo sul mondo continue finestre di nuova significazione. Spazi di senso che tornano indietro e restituiscono l’opera creatrice: la cultura è prodotto dell’uomo ma è anche agente, e sempre ci interroga, ci parla, ma soprattutto ci modifica a sua volta, a sua immagine e somiglianza.

Così ha fatto la televisione prima dei suoi successori digitali: ha aperto la strada a una virtualizzazione massiccia, diretta, senza compromessi, che ha investito in diverse direzioni l’immaginario collettivo mondiale in generale e italiano in particolare. Qui, il conduttore televisivo, colui che dirige i fili della marionetta (ed è al contempo egli stesso parte parte del processo figurativo proprio della marionetta di cui parlavamo), diviene a seconda dei casi figura paterna, amicale, educativa, dispensatrice di confronto o conforto, si insinua tra le posate e i piatti su cui gli spettatori mangiano suggerendo loro input, riflessioni, suggestioni.

E da qui si può ben capire perché non si può tacere della morte di uno di questi direttori del virtuale, e perché di fatto non se ne tace.