“Come togliersi dai piedi per essere felici” di Marco Nicastro

di Alice Baldelli, in Cinema, del 9 Apr 2018, 06:45

Che un’opera prima italiana risulti veramente convincente è cosa nient’affatto scontata, a maggior ragione se si tratta di una commedia romantica, genere in cui troppo spesso il nostro cinema è stato ben lontano dagli standard di quello americano (e forse a esso intellettualmente subalterno, nei temi e nello stile). Per questo Chi m’ha visto (2017) di Alessandro Pondi sembra possedere tali caratteristiche, stagliandosi a mio avviso come una delle sorprese più piacevoli del cinema italiano degli ultimi anni.

Il film parla di amicizia (declinata “alla meridionale”), di amore ovviamente (anche se il tema, nonostante il genere, non è poi così dominante), di illusioni adolescenziali mai sopite (con conseguenti delusioni), il tutto ambientato in un immobile e sperduto paese dell’entroterra pugliese. I due protagonisti, interpretati da Beppe Fiorello e da un eccezionale Pierfrancesco Favino, sono molto ben tratteggiati: legati da un’amicizia di vecchia data, si ritrovano dopo tempo a rivivere nello stesso paese d’origine. L’uno sensibile, idealista e onesto, deluso dalla propria carriera di musicista che non è mai decollata veramente, nonostante l’età ormai più che matura, e sempre col sogno nel cassetto di creare della musica più personale; l’altro cinico e rozzo (esilarante la sua parlata dialettale), che si accontenta di vivere alla giornata con quanto gli offre la piccola realtà del Meridione in cui vive da sempre, eppure prontissimo, al contrario dell’amico, a non farsi sfuggire una grande occasione qualora gli capiti a tiro. Nonostante queste differenze caratteriali l’amicizia tra i due dura nel tempo, è sincera e fornisce un esempio realistico – grazie alla bravura di regista e sceneggiatore, che hanno saputo evitare cliché e forzature – di come nelle relazioni interpersonali sia in fondo possibile integrare le differenze, senza negare il conflitto e la possibilità di incomprensioni anche dolorose.

La storia, oltre a intrecciare queste tematiche più tradizionali con altre più originali di arguta critica sociale – mettendo in discussione, ad esempio, l’attuale società dell’apparenza e dell’arrivismo senza sostanza che ha infestato, complici alcuni programmi televisivi di successo e l’avvento dei nuovi media, anche la società italiana degli ultimi due decenni – spinge a riflettere su quanto sia importante per ognuno credere in un ideale (che per il protagonista è la musica) e, allo stesso tempo, su quanto sia saggio sapervi rinunciare se quell’ideale può condurre, nonostante le iniziali soddisfazioni, alla stagnazione della parte migliore di se stessi. Ma la pellicola spinge lo spettatore a interrogarsi anche sul valore degli affetti e sull’attacco che è mosso contro di questi dalla spinta collettiva al guadagno, all’esibizione e alla popolarità, fenomeni che ormai possono essere visti, a livello sociale, come l’equivalente delle alterazioni narcisistiche della personalità che già da diversi anni la psicoanalisi ipotizza essere prevalenti anche tra le persone comuni. Resta nella memoria, a tal proposito, la scena dell’assolo di chitarra che il protagonista fa guardando dalla collina verso la valle vuota e immaginando una folla in delirio che lo acclama: una scena che rappresenta perfettamente le fantasie narcisistico-onnipotenti di riconoscimento che spesso soggiacciono ad alcune professioni artistiche e forse all’intera società occidentale di oggi.

Il film indica come possibile via d’uscita da una condizione sociale (ma anche interiore) in cui le maschere di circostanza prevalgono sulle relazioni vere, e in cui la smania di visibilità acceca chi aspira a certi traguardi, l’essere sempre disposti a ridimensionare le proprie aspirazioni, per quanto importanti queste possano essere, e a fondare il proprio vivere sugli affetti più autentici, anche se questo comporta il doversi accontentare di poco. Parafrasando il titolo di un celebre film dei fratelli Cohen, si potrebbe dire che il nostro non è un Paese per sognatori, che il mondo contemporaneo non è un posto per sognatori, nonostante un benessere economico più diffuso. Checché ne dicano i triti e insopportabili mantra americani, per cui basterebbe credere fortemente in un sogno per poterlo realizzare, il mondo di oggi è spietato verso chi coltiva i propri desideri, considerati inutili per un guadagno immediato e non produttivi secondo i criteri del capitalismo imperante. Ciò significa, in fondo, dover vivere secondo criteri esterni (di solito materialistici) imposti dalla società, rinunciando a seguire le proprie inclinazioni e, perché no, il proprio potenziale creativo, cosa deleteria a lungo termine per l’equilibrio psicologico individuale.

Se tutto questo un film leggero e divertente riesce a comunicarlo attraverso una storia che “tiene” sempre per ritmo e coerenza, impreziosita da ottime interpretazioni, sempre credibile nei dialoghi, sostanzialmente originale nell’idea di fondo e con un finale da incorniciare, la speranza che qualcosa nel cinema italiano vibri ancora resta viva, insieme alla presenza di bravi attori, registi e sceneggiatori capaci di sondare con intelligenza i mali più pervasivi del nostro tempo.

Marco Nicastro (Caltagirone, 1979) vive e lavora a Padova. Da anni si occupa di psicoanalisi e poesia. Ha pubblicato alcune raccolte poetiche, l’ultima delle quali Visioni e introspezioni (Ladolfi, 2017). Collabora con riviste di argomento filosofico e psicoanalitico, come Kasparhauser (di cui è co-redattore) e con alcuni blog culturali.