Anna Maria Mozart e Paolina Leopardi, il triste destino dell’essere “sorella di…”

Che cosa accomuna un poeta come Giacomo Leopardi (1798-1837) e un musicista come Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)? Tanto per cominciare, si dirà, il fatto che possedevano entrambi un talento non comune, o per meglio dire riflettevano (ciò è tanto più vero nel caso del Recanatese) quell’ideale di “genio” legato a un tipo di figura malinconica, tormentata, romantica nel senso più completo, dalla vita densa di difficoltà d’ogni sorta. Per inciso: dico “genio” utilizzando un termine che non mi convince affatto, conformistico, dogmatico, legato com’è a un romantico concetto di auctoritas e di inafferrabilità quasi infantile.

Ma tant’è, diciamo pure due geni, intesi come uomini dal superiore ingegno, ché superiore fu il loro lascito artistico e umano. E da che cos’altro sono accomunati, oltre che da tutto ciò?

Per esempio dall’aver vissuto entrambi una vita assai breve (breve quanto però feconda): visse 39 anni l’autore dello Zibaldone, 35 quello del Così fan tutte. O, ancora, dall’aver ricevuto in sorte un destino che li rese entrambi figli di un padre-padrone, ché tali, chi più, chi meno, erano il conte Monaldo Leopardi e l’apprezzato violinista e compositore Leopold Mozart. E purtuttavia questi illustri genitori ottennero esiti opposti: tanto Giacomo Leopardi era goffo, introverso e succube del padre, quanto spigliato e mondano era il compositore salisburghese, che da parte sua temeva e rispettava l’autorevole Leopold, ma tuttavia non di rado trovava il pretesto per arginarne le direttive. Così, poco più che ventenne, supplicato dal padre di tentare di garantirsi un impiego, troviamo un Wolfgang intenzionato piuttosto a seguire le sorelle Aloisia e Constanze Weber (quest’ultima sua futura moglie) in una tournée in giro per l’Europa. Ricevuta la notizia, il padre del compositore montò su tutte le furie:

“La tua proposta di andare in giro con il signor Weber e le sue figlie poco è mancato che mi facesse uscir di senno!”

E ancora, qualche tempo dopo:

“Lo scopo essenziale del tuo viaggio era e deve essere di trovare un impiego, o perlomeno guadagnare del denaro. Ora siamo nella merda e non abbiamo ancora ricevuto una parola dei tuoi progetti”.

Le affinità tra il poeta italiano e il musicista austro-tedesco non finiscono qui: sia l’uno che l’altro crebbero insieme alla propria sorella, e si trattava di una sorella dotata (in entrambi i casi) di sensibilità e intelligenza. Come tante altre donne delle loro rispettive generazioni, Anna Maria Mozart e Paolina Leopardi erano accomunate dal medesimo destino: nate donne in un’epoca in cui alle figlie della nobiltà e della nascente borghesia si impartiva un’istruzione più per renderle appetibili nell’ottica di un matrimonio che per offrir loro quella che oggi si direbbe una “formazione” o una “carriera”, videro le proprie inconfessabili ambizioni sfumare all’ombra del talento (e della condizione d’indubbio vantaggio) che avevano i rispettivi fratelli. Ma tratteggiamole brevemente queste due figure, peraltro ben note, partendo da Anna Maria, quartogenita dei coniugi Mozart.

Si chiamava Anna Maria, ma la sorella maggiore del futuro autore del Flauto magico e del Quartetto delle dissonanze veniva chiamata affettuosamente “Nannerl” (1751-1829). Da bambina era considerata una enfant prodige: sorprendente clavicembalista, educata e dai modi galanti, sembrava avviata a una invidiabile esistenza spesa tra le corti e i salotti dell’alta società europea, che all’epoca era poi l’alta società austriaca, milanese, prussiana, bavarese, parigina, londinese. Sulle prime era lei la protagonista dei tour che il padre organizzava attraverso il vecchio continente. C’era anche il piccolo Wolfgang che impiegò poco a emergere attirando ben presto su di sé le attenzioni di un pubblico che applaudiva Nannerl come esecutrice raffinata, ma spasimava per il bimbetto di cinque-sei anni che doveva apparire, agli occhi di quell’uditorio mondano a caccia di emozioni, una sorta di stregone della tastiera.

Tutto ciò contribuì certamente a oscurare la figura di Nannerl: dimenticata da quanti un tempo avevano potuto apprezzarla, la sua fama di clavicembalista tramontò molto presto; se ne consolò unendosi in matrimonio al barone Johann Baptist von Berchtold zu Sonnenburg, conducendo vita agiata e recando dentro di sé quell’inestimabile patrimonio di esperienze. Di lei ci rimane il ricordo di un’ombra sbiadita, che ad ogni modo, a quanto ci risulta, non peccò mai di invidia o tepidezza nei confronti d’un fratello che cercò anzi sempre di sostenere.

In una sorte ben più triste incorse, invece, la sorella di Giacomo Leopardi.

Nonostante quelle Nozze della sorella Paolina che il fratello le dedicò nel 1821, a Paolina Leopardi (1800-1869) per un motivo o per l’altro non riuscì mai di prendere marito. Ebbe i connotati della tipica eroina romantica, una specie di Emily Brontë (di cui lesse, invaghendosene, Cime tempestose) e Mary Shelley. Probabilmente meno spigliata di Nannerl Mozart, tuttavia era non meno sensibile e forse più colta, in perenne preda alla malinconia e innamorata dell’amore, appesantita dal dover dimorare in quella “tomba de’ vivi”, come il fratello Giacomo chiamava la dimora natia di Recanati. La letteratura era il solo vero riscatto dalla realtà, unico nutrimento felice, sola alternativa a un’esistenza che le appariva ostile: da buona eroina romantica vagheggiava di amore e di legami che non arrivavano mai; provò a consolarsene leggendo un trattato di Stendhal che si chiamava Considerazioni sull’amore, ma senza trovarvi rimedio.

Dovette attendere la morte del padre (avvenuta nel 1847) e poi quella della madre (1857), la non meno austera e bigotta Adelaide Antici, per emanciparsi da una situazione ch’ella visse sempre come una prigionia. Non è un caso che solo allora prese a viaggiare e conoscere quel mondo, o perlomeno quell’Italia, per cui aveva spasimato per tutta la vita: visitò Bari, Napoli, Firenze, Parma, Modena, Pisa, dove morì; conobbe diversi estimatori del fratello (scomparso molto tempo prima, nel 1837) e finalmente alcune persone con cui sino ad allora aveva intrattenuto degli scambi epistolari.

Ma anche Paolina, come già Nannerl, finì ben presto per appassire, nel ricordo delle generazioni future, all’ombra del fratello. Triste destino per chi avrebbe desiderato essere ricordata per i suoi scritti più che per le sue sventure.

Occuparcene, come facciamo, è un po’ risarcirla di quanto la sorte ha voluto sottrarle.

[L’autore desidera dedicare questo articolo alla memoria del prof. Paolo Balia, di Sant’Antioco, il cui insegnamento è stato prezioso e umanissimo]

Marco Testa

Nato nel 1983 e cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storico-archivistici e musicali. Autore di saggi e numerosi articoli, scrive su “Cultora” e su “Il Corriere Musicale”. Lavora presso istituti storici e musicologici; recentemente è stato invitato dal direttivo dello Xenia Ensemble a moderare alcune conferenze nell’ambito del Festival di musica contemporanea “EstOvest”. Adora (quasi) tutto ciò che è Musica, il mare, la letteratura di viaggio, la letteratura e il cinema horror, gli antichi borghi, la storia e la cultura della sua Sardegna, il buon cibo e molto altro. Vive a Torino dal 2008.