11 settembre: uno scrittore romeno a New York

di Anita Bernacchia, in Blog, Letteratura, Libri, del 11 Set 2017, 19:03

Tra i vari argomenti toccati nel suo ultimo libro Corriere dell’Est, Norman Manea riferisce della sua esperienza di esule letterario a New York, dove abita dal 1987.
Per l’autore, l’esperienza è inizialmente pari a una crisi esistenziale, come se mi avessero gettato in un oceano senza che io sapessi nuotare. Col passare del tempo, riesce invece a far sua la vita americana, con i suoi pregi e difetti, le sue follie e i suoi vantaggi, pur mantenendo un equilibrato distacco, in virtù del quale mai rinnega se stesso, la sua identità romena e la sua letteratura.
Una vita americana che, l’11 settembre 2001, lo sorprende al Bard College, dove da molti anni insegna letteratura comparata.
Ecco come visse quel giorno, e come aiutò i suoi studenti americani a superarlo.

Edward Kanterian: Hai ricordato l’attentato al World Trade Center. Come lo hai vissuto?
Norman Manea: La mattina dell’11 settembre 2001 mi trovavo al Bard College, a circa un’ora e mezzo da New York. Mi stavo preparando per il seminario del pomeriggio: «Esilio e straniamento nella prosa moderna». Solo alle undici venni a sapere di quel barbaro attentato. La maggior parte dei docenti annullò le lezioni. Preferii andare in classe e chiedere agli studenti se volevano parlare, come da programma, del romanzo Pnin di Nabokov, o rimandare la lezione. Erano esitanti. Parevano traumatizzati, preferivano non restare soli. Pensavo che il tema del seminario ci avrebbe permesso di dibattere anche delle contraddizioni della modernità, della solitudine di coloro che avevano perso il loro centro e cercavano, a tutti i costi, uno. Il terrore, i traumi e le mistificazioni esprimevano questa ricerca.
Il silenzio si prolungava e proposi loro di votare: siete in sedici, se metà di voi è a favore, possiamo decidere soltanto con il mio voto. Qualunque fosse stata la decisione, avrebbe scontentato chi aveva votato diversamente. Costoro avrebbero potuto accettare il voto e fare un compromesso, il tipico compromesso della democrazia, e partecipare al dibattito. Oppure rifiutare ogni compromesso e buttare per aria l’edificio. Questa è la differenza tra la democrazia e il rifiuto della stessa.

Cosa scelsero gli studenti?
Scelsero il dialogo. Ma l’alternativa fu per loro un segnale sulla portata della tragedia che si era verificata quella mattina. Democrazia o guerra contro coloro con i quali non si va d’accordo. La democrazia è spesso un noioso compromesso che tenta di addomesticare la natura umana. Ad alcuni pare intollerabile, come ai nichilisti che, intonando preghiere ad Allah onnipotente, hanno gettato per aria il World Trade Center, uccidendo persone che non conoscevano e uccidendo il dialogo, il compromesso. Imponendo, mediante l’assassinio, la supremazia della morte cui aspira il fanatismo islamico. Il culto della morte affascinò tanto i nazisti quanto i legionari romeni.
Il risentimento nei confronti della libertà e della democrazia è in grado di mobilitare, oggi più che mai, l’aggressività contro l’America «demoniaca», i fanatici religiosi, ma anche i militanti non religiosi che si oppongono alla globalizzazione. Benché quest’ultima faccia già parte della quotidianità: l’aspirina e il computer. Non si tratta dell’uniformazione dell’umanità, ma di una rete utilitaristica metageografica, cui sono associati rischi e benefici.
Il cieco rifiuto della realtà non pare cosa saggia e non può essere produttivo.

Dunque non possiamo liberarci dalla globalizzazione?
Forse possiamo opporci ai suoi effetti negativi, diminuirli.
Ma domandiamoci, prima di tutto, di quale tipo di globalizzazione parliamo. Non contempla forse le ideologie del dogma religioso o di altro genere la mondializzazione del patriarcalismo mistico, medievale e totalitario che abolisce il dialogo, le divergenze, la dissidenza e vieta il pensiero e il comportamento non convenzionale, non canonico? La guerra santa, globalizzata, per imporre una fede e una visione collettivista e unica, eliminando tutti coloro che hanno diversa affiliazione? Come paragonare tale globalismo a quello dello sviluppo economico e democratico?
Che la catastrofe dell’11 settembre 2001 sia l’espressione coerente dell’inevitabile guerra tra la tradizione morale giudeo-cristiana, che proclama la sacralità della vita umana, e il fanatismo islamico, che considera la morte come il massimo compimento dell’esistenza? Il culto della morte non è neanche un fenomeno tipicamente islamico. Gli estremisti della destra europea celebravano la morte e la morbosa rivoluzione reazionaria e nazionalista prima del 1945, con il medesimo fervore con cui i loro avversari di sinistra proclamavano e promuovevano l’utopia internazionalista del progresso. Sognavano tutti che la loro dottrina divenisse globale…
Dove ci porterebbe il ritorno di queste ideologie come politica di partito e di stato? Difficile immaginarlo.
Preferisco l’aspirina e il computer, la musica, il linguaggio internazionale della scienza e dell’arte, del commercio, del turismo, dello sport, della filatelia, della gastronomia.

Fu questo l’argomento di cui parlasti con i tuoi studenti?
Suggerii di avviare un dialogo con i loro compagni musulmani. Il Bard College è molto cosmopolita, vi sono studenti da trenta paesi, compresi quelli islamici. Credo sia importante che la religione musulmana venga spiegata da coloro che la praticano, non dai cristiani, dagli ebrei o dagli atei. Sono i musulmani a dover spiegare al mondo se la loro religione li obbliga davvero a un’apocalittica guerra contro gli «infedeli» o se sono i terroristi che vogliono rappresentarli a manipolare la dottrina di Allah a vantaggio della loro frenesia assassina.

Com’era New York in quei giorni?
Una città ferita, sotto choc, trafitta. Giorni di assedio ed emergenze. Gli abitanti e le istituzioni reagirono, tuttavia, piuttosto bene, con riservatezza e tristezza, in uno spirito di solidarietà comunitaria. La risata ritrovò rapidamente propri accenti, le strade riacquistarono vivacità e colore, il battito della città tornò nella norma, impetuoso come sempre.
In quei giorni mi sentii americano, newyorchese, molto più che nel giorno in cui ricevetti la cittadinanza americana. Non solo perché l’11 settembre 2001 erano stati attaccati i valori della democrazia che mi avevano condotto fin qui, ma anche perché era accaduto a New York, la moderna Babilonia, con le sue pittoresche enclaves russe, cinesi, italiane, indiane. Un conglomerato di esuli, etnie, tradizioni che simboleggiano non solo la diversità dell’America, ma del mondo intero, l’ideale comune della libertà. Le vittime del World Trade Center provenivano da ottanta paesi.

Molti analisti vedono in questo attentato una risposta alla posizione egemone degli Stati Uniti.
Non mi stupisce. Non sono pochi coloro che pensano che gli Stati Uniti meritino di essere aspramente criticati, o persino puniti per i loro peccati e i loro disastri, per l’arroganza e l’ignoranza, il materialismo e l’ossessione per il denaro. Sono obiezioni che trovano giustificazione nella realtà americana. Realtà niente affatto idilliaca, in cui i contrasti sociali sono terribili, il provincialismo bigotto incita alla violenza, i meccanismi del profitto accelerato e l’infantilismo delle semplificazioni si moltiplicano. Ma chi pensa che l’America sia composta solo da un’orda di analfabeti patrioti e dal fare militaresco, al servizio del Vitello d’Oro, senza vedere la povertà e la carità, la scienza, lo spirito d’iniziativa, la sofferenza e l’energia che proviene dalla speranza in qualcosa di meglio, non comprende che l’America è, in ogni istante, migliaia di Americhe. La sua diversità esplosiva e disorientante non può essere ridotta a simboli e cliché antiamericani, che ignorano gli enormi contrasti e lo stesso percorso evolutivo di questa democrazia ordinaria, popolare, che i reietti e gli sradicati del mondo hanno avviato e realizzato qui, for better or for worse, come una nuova civiltà della modernità.
Ricordo un confronto avuto all’inizio degli anni novanta ad Amsterdam, a una conferenza letteraria sulla censura. Ero l’unico partecipante venuto dall’America e fui preso per yankee, benché all’epoca non avessi nemmeno la residenza americana. Dopo aver illustrato casi di abuso e discriminazione subiti dai suoi correligionari negli Stati Uniti, un autore arabo di Israele mi interpellò pubblicamente: «È questa la democrazia, signore?». Per un istante volli domandargli con quali stati stava paragonando l’America, con gli stati arabi, monarchie corrotte, medievali, dittature prive del rispetto della legge? Mi contentai, tuttavia, di citare la mia esperienza e di precisare che parlavo soltanto a mio nome, non del paese che avevo abbandonato né di quello in cui risiedevo. «Sì, l’America è una democrazia, a mio parere, ma non un paese perfetto. Ho vissuto la maggior parte della mia vita in una società che si proclamava perfetta e non vorrei riacquisire tale privilegio. Sono lieto di vivere in un paese tanto imperfetto quanto lo sono i suoi cittadini.»
Anche dopo l’atroce tragedia del 2001, l’America e gli americani non paiono pronti a rinunciare facilmente ai loro diritti individuali e alla loro libertà, in cambio di qualche rassicurazione sulla loro protezione. Non a caso, quando arrivai qui, rimasi stupito del fatto che non esistono carte d’identità!

E, nonostante tutto, i peccati…
Ce ne sono abbastanza. Non solo gli interventi militari quale soluzione rapida e decisiva (spesso fallimentare) per mantenere le sfere di influenza o l’appoggio pragmatico di alcune dittature, sulla base del principio «il nemico del mio nemico è mio amico», ma soprattutto i peccati all’interno del paese, credo. Se l’America spendesse internamente almeno una parte del suo enorme budget militare, riuscirebbe a migliorare lo stato dei ceti disagiati in modo radicale, benché ciò potrebbe portare alla sostituzione tempestiva dell’americano gendarme del mondo con un altro simile personaggio, forse più temibile e aggressivo.

Corriere dell’Est. Conversazioni con Edward Kanterian, Norman Manea, il Saggiatore 2017, trad. di A.N. Bernacchia.