L’editore è (anche) un mestiere per giovani

Henry Beyle è indubbiamente una delle case editrici di progetto più interessanti nel panorama editoriale italiano, ho acquistato in varie fiere i loro libri di cui mi ha colpito, oltre all’attento lavoro di ricerca di testi scomparsi e dimenticati, la cura del “prodotto libro”. Non si può che ammirare e fare i complimenti a Vincenzo Campo per il proprio lavoro.

Eppure non posso che prendere le distanze dalle sue parole rilasciate in un’intervista stimolante e ricca di spunti ad Alessia Liparoti su Il librario.

“Per fare l’editore occorre quella che, prendendo un prestito dal Manzoni, chiamerei ‘l’età sinodale’ delle perpetue. Non è un mestiere per giovani. Credo che soltanto Piero Gobetti nel Novecento sia riuscito da giovanissimo a farsi editore. Prima di far questo bisogna aver trafficato, aver avuto un rapporto di commercio, di passione e di diatriba con intere biblioteche e con il lavoro di tanti altri. Così si arriva, per confronto o per furto, a maturare un’idea di editore”.

Campo, con queste parole, cade in uno dei più frequenti equivoci della società contemporanea, specie italiana: etichettare una persona per la propria età anagrafica e non per il lavoro che svolge, nel bene e nel male.

Così come talvolta i media esaltano aziende e iniziative solo perché ideate da un giovane anche se mediocri o di scarso valore, allo stesso modo se un giovane imprenditore compie un errore viene subito accusato di non avere sufficiente esperienza.

Si crea così una pericolosa tendenza, evidente soprattutto nel panorama culturale italiano, secondo cui si preferisce dare spazio sempre agli stessi nomi che propongono idee analoghe da decine d’anni senza rinnovare il dibattito e l’offerta culturale ed editoriale.

Iniziare a valutare le persone per la qualità del proprio lavoro e non per l’età anagrafica sarebbe un grande passo in avanti per l’editoria italiana, invece che chiudersi in se stessi sarebbe necessario favorire la nascita di nuovi talenti e realtà editoriali di qualità.

Per farlo la strada migliore è spiegare ai giovani che editori non ci si improvvisa, che per svolgere questo lavoro è necessario tanto studio, dedizione, ricerca, ma dissuadere un giovane dall’aprire una casa editrice solo per la sua età anagrafica non è solo sbagliato ma anche pericoloso per un paese che ha sempre più bisogno di nuove idee e personalità.