Il paziente non è un numero, ma vuole diventarlo

Si pensa ma non si dice. No, si pensa e si dice. Il paziente non è un numero: è una persona. Sesso maschile o femminile, identità precisa, esigenze e caratteristiche uniche e non riproducibili in altri esseri umani.

Da anni le persone (preferisco chiamarle così, detesto l’uso della parola “pazienti” anche se ne riconosco la praticità in riflessioni come questa) rivendicano a pieno titolo il diritto di essere trattate come esseri unici dotati di nome, cognome, volto e individualità: accade negli ospedali, negli ambulatori, in ogni contesto medico. E credo non sia solo giusto: è dovuto. Chi lavora in sanità dovrebbe avere una specie di lezione zero il primo giorno di frequenza dell’università, e un eventuale ripasso con un corso accelerato se è assunto in una struttura che si occupa di pazienti: vietato usare espressioni come “Lei è il letto 22, il paziente 7, il cliente 66”. Appena accettabile, ma sfiora i valori più bassi della media della decenza, usare il cognome senza il nome: “Venga, Gatti, che facciamo un esamino”. Diciamo che l’uso del cognome rivela scarsa attenzione ma un tentativo pallido di personalizzazione, troppo pallido per i miei gusti. Abominevole l’uso del “tu” senza preventiva autorizzazione. Le persone che si affidano alle cure dovrebbero ricevere il trattamento cui hanno diritto: nome e cognome preceduti da signora o signore, un sorriso e la disponibilità dei professionisti sanitari a imparare i dati individuali il tanto che basta per eliminare la fastidiosa sensazione di fare parte di una massa informe e tutta uguale.

Internet però complica le cose: essendo in apparenza il mezzo più democratico del mondo, ha il potere di livellare le menti meno strutturate e azzerare la consapevolezza. Ecco che gli individui, posti di fronte al forum di uno specialista o al suo indirizzo email (magari in un social network), decidono di rinunciare agli anni di rivendicazione e conquista di una dignità per ritornare a essere numeri. Ci si buttano proprio, si immergono nell’assenza di sé e lo fanno volontariamente. Si tolgono il volto, smussano gli angoli della personalità e della storia personale (così importanti per una decisione terapeutica) e inviano messaggi con lunghe spiegazioni su condizioni cliniche per le quali domandano una consulenza specifica. Inutile sottolineare in calce a un forum o nel proprio status online che non si possono rilasciare consulenze personalizzate: tale avviso sarà quasi del tutto ignorato e comunque disatteso. Ogni medico che affiori nel panorama di internet avendo un curriculum rispettabile (ma anche traballante, a volte) è bersagliato da richieste di prescrizione, conferma diagnostica o terapeutica, parere sulla salute e sulla malattia di qualcuno. Sulla vita, sulla morte, sul benessere, sull’appropriatezza di alcune indicazioni già date da altri medici. Questo è rinunciare alla propria individualità, è rendersi numeri ancora meno visibili e dignitosi rispetto ai pazienti ospedalizzati trattati da “letto 16, camera 90” eccetera.

La scusa più gettonata è l’ansia: “Mi scusi, domani andrò dal mio medico ma intanto non può fornirmi una spiegazione iniziale, per placare la paura?”. E’ un giochetto retorico che senza dubbio ha fondamento nella verità di uno stato d’animo, ma non può avere influenza sulla decisione del medico di rispondere “no”. Perché il medico serio di fronte alla richiesta di una consulenza specifica con tanto di prescrizione di esami o addirittura terapie dovrebbe rispondere no: senza appello, senza fronzoli verbali. Solo no. Il motivo è o dovrebbe essere evidente: la medicina di eccellenza è personalizzata, abbattiamo finalmente l’idea che si ragioni a protocolli senza controllare le caratteristiche specifiche di ciascuno. Siamo persone, il corpo di ognuno è differente da un altro: il farmaco che funziona su di me potrebbe avere effetto opposto, magari deleterio, su un parente o amico o conoscente e anche la malattia non ha mai le medesime caratteristiche. “Quella signora ha avuto la mia stessa malattia, stessa cosa”: questa affermazione non è mai vera, non lo è se si fa ciò che è necessario cioè si va a fondo e si osserva ogni singolo, minimo dettaglio. Sono i dettagli a creare la salute e la cura, non un protocollo rassicurante dal punto di vista medico legale (se segui il protocollo il paziente potrà anche morire, ma per la legge te la caverai comunque) e il medico ha alcune responsabilità che deve assumere anche quando lo/la porteranno a viaggiare fuori dagli schemi o su terreni che mettono insieme scienza e intuito, empatia e razionalità.

Molto diversa la questione della cosiddetta “seconda opinione” (“second opinion” per la mania tutta italiana di credere che una prestazione sanitaria valga di più se ha un nome inglese): se strutturata bene, questa consulenza a distanza nei centri di eccellenza può funzionare ma richiede una completezza di relazione tra medici e pazienti che assomiglia molto a una visita di persona.

Non siamo numeri, siamo persone. Ogni persona è diversa, ogni malattia è diversa anche quando apparentemente assomiglia a un’altra. Un medico può valutare la salute dei pazienti solo in determinate condizioni e con una personalizzazione che è amore, rispetto, consapevolezza.